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Paolo Gili

restauratore · Mnemosyne

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Mettere le mani su un oggetto artistico che il tempo ha attaccato, con lo scopo di preservarlo e conservarlo è lo scopo del restauratore. Ma fino a dove potrà spingersi nel suo intervento senza comprometterne l’originalità, senza interpretare, senza influire? Oppure per forza l’opera d’arte diviene in parte l’opera del restauratore che la ha riportata al suo colore originale? Questa ed altre domande abbiamo affrontato con Paolo Gili, restauratore d’arte, dalle tele al polimaterico. Ci ha accompagnato in un viaggio affascinante alla ricerca di quel bene effimero che è l’autentico, così fragile ma così importante per la comprensione della nostra cultura materiale ed artistica. E saper cogliere l’autenticità profonda delle cose è indubbiamente un valore trasversale degno di essere conosciuto ed approfondito.

Note a margine

a cura di Enrico Canadà

· minuto 13:00 \ Nota 1 \

Mnemosine è una figura della mitologia greca, personificazione della memoria e del potere di ricordare. Dalla sua unione con Zeus vennero generate le muse, tra le più importanti divinità greche poiché rappresentavano l’ideale supremo dell’Arte. Sono nove − Clio, Euterpe, Thalia, Melpomene, Tersicore, Erato, Polimni, Urania, Calliope − e a ognuna di esse era affidata un’arte intesa come forma poetica; poi la loro influenza venne allargata anche alla prosa e ad alcuni campi delle scienze, come l’astronomia. È bene ricordare che quello che noi associamo al nome arte (pittura, scultura, architettura) avrebbero dovuto attendere ancora molti secoli prima di poter esser considerato degna materia divina. Chissà se le muse avrebbero accettato, oggi, di proteggere le nuove arti che per noi sono scontate: il cinema, la fotografia, il fumetto.

· minuto 26:08 \ Nota 2 \

Cesare Brandi è stato uno dei più importanti storici dell’arte del Novecento, ricordato per aver fondato l’Istituto Centrale del Restauro di Roma e per aver elaborato una nuova teoria sulla conservazione e il restauro delle opere d’arte.
Il restauro è il «momento metodologico del riconoscimento dell’opera d’arte, nella sua consistenza fisica e nella sua duplice polarità estetica e storica, in vista della trasmissione al futuro». Questo significa che il restauro deve trovare una mediazione tra il valore estetico e il valore storico dell’opera. Il valore estetico deriva dall’artisticità dell’opera mentre la storicità è duplice: quella coincidente con la nascita del manufatto e quella della sua vita nel corso del tempo. Il restauro moderno non deve cercare un ipotetico strato originario dell’opera, bensì ristabilire «l’unità potenziale dell’opera d’arte», ovvero ripristinare la corretta leggibilità dell’opera senza commettere un falso artistico, un falso storico e senza cancellare le tracce del passaggio del tempo di un’opera.
L’unico momento legittimo per l’azione di restauro è il presente. In questo modo, quando sarà necessario reintegrare una lacuna − con cui si intende una perdita di materia che danneggia l’unità dell’opera e quindi la sua leggibilità, l’intervento dovrà essere riconoscibile, reversibile e giustificato dai dati e dai frammenti.

· minuto 31:40 \ Nota 3 \

Un dipinto, a meno che non rechi evidenti lacune o segni di manomissione, viene spesso considerato come un prodotto arrivato a noi direttamente dalla mano dell’artista, come se l’ultimo tocco di pennello avesse messo fine alla realizzazione dell’opera. Lo stereotipo del pittore che cammina tra i campi o nelle strade di qualche romantica città, posiziona il cavalletto, miscela i colori sulla sua tavolozza, magari con in testa anche un basco, e dipinge la sua opera sulla tela linda, non rispecchia la complessità che c’è dietro un dipinto, di qualsiasi epoca storica. La realtà è che esso è il risultato di una serie di strati che si sovrappongono. La tela necessita di varie preparazioni, di solito con gesso e colla, prima di poter essere dipinta. Gli strati continuano con il procedere del lavoro: il disegno preparatorio e i colori finali, ma anche i ripensamenti, le ridipinture o i rifacimenti ad opera di qualcun altro. Per non dimenticarsi della patina, dello sporco e della polvere che si depositano sulla superficie col tempo. Un restauratore, per poter operare un buon restauro, deve conoscere e dialogare con questi strati, per capire come intervenire senza commettere violenza alla volontà creatrice dell’artista.

· minuto 45:30 \ Nota 4 \

Per «ductus pittorico» si intende il gesto della pittura. In questo gesto c’è il segno di un’epoca storica: nel Trecento si dipingeva applicando il colore per gradazioni cromatiche; gli impressionisti toccavano la tela con gesti rapidi del pennello. C’è una scelta tecnica: il segno del pennello può essere un tocco appena sfiorato o impresso con forza, strofinato, accarezzato, picchiettato. Ma c’è anche qualcosa di più personale, legato alla dimensione intima dell’artista: un qualcosa di unico e irriproducibile, ciò che dona significato ed espressività all’opera, qualcosa che viene dalla sensibilità creativa del pittore e che diventa il suo segno distintivo, la sua firma più vera. Così come la grafologia vuole dedurre la psicologia di un individuo tramite l’analisi della traccia della sua penna, la comprensione del «ductus» può farci riconoscere la mano del pittore, e quindi i tratti unici della sua mente.

· minuto 56:03 \ Nota 5 \

La tela non è stata sempre il supporto pittorico più diffuso su cui dipingere. Fino alla fine del Quattrocento regnavano incontrasti la tecnica ad affresco e la pittura su supporti di tavola lignea. I primi a usarla in modo copioso furono i pittori Veneti della fine del XV secolo. Il microclima umido della Laguna Veneziana aveva già danneggiato i grandi affreschi del Trecento, proprio negli anni dunque in cui l’affresco era, e sarebbe stato ancora, la tecnica principe per la realizzazione di importanti cicli pittorici. Le tavole lignee erano inutilizzabili poiché, sempre a causa dell’umidità, si sarebbero imbarcate e deformate danneggiando gravemente la superficie pittorica. La soluzione – trovata dei
pittori veneti – fu applicare una tela su un telaio: la tela non pativa l’umidità e poteva coprire un’estesa superficie, assolvendo a una prerogativa che era stata della pittura murale.
Da qui in poi, con l’utilizzo più frequente, si scoprirono gli altri vantaggi della tela: costava di meno, la superficie si preparava più facilmente prima di procedere con la pittura e garantiva facilità nel trasporto (la tela poteva essere arrotolata) senza compromettere il dipinto.

· minuto 57:36 \ Nota 6 \

Dagli anni ’70, soprattutto grazie all’attività dello storico e critico Giovanni Urbani, si è iniziato a parlare di interventi indiretti di restauro. Ovvero di una metodologia che è volta a far sì che ci sia sempre meno bisogno di interventi di restauro sull’opera. Attraverso un’azione di tutela fondata sulla prevenzione dei fattori ambientali di degrado (che possono essere di varia natura), si cerca di garantire la conservazione della materia del manufatto artistico.
Negli ultimi anni, grazie allo studio delle dinamiche dei fenomeni fisico-chimici che caratterizzano l’ambiente di conservazione di un’opera, e grazie ai progressi compiuti nello sviluppo delle indagini diagnostiche, il tradizionale modo operativo di restauro – diretto alla materia dell’opera – ha visto, quando possibile, un mutamento in favore del cosiddetto restauro preventivo, che punta sulla conservazione e a ritardare il più possibile l’intervento di restauro vero e proprio.

· minuto 1:00:39 \ Nota 7 \

La velatura è una tecnica di finitura, dei dipinti a olio, che consiste nel porre uno strato sottilissimo di colore molto diluito sul sottostante dipinto, ormai asciutto, per ottenere effetti di trasparenza, semitrasparenza, per creare l’effetto traslucido o per mutare il colore sottostante.
L’ultima velatura, l’ultimo tocco di pennello, non segna la fine per un dipinto: esso continuano a essere rifiniti nei decenni da un’altra figura: il «Tempo Pittore», responsabile della patina. La patina è proprio segno del passaggio di un’opera nel tempo e, perciò, ha valore storico. Nel restauro va quindi conservata e non rimossa.
Il termine «Tempo Pittore» venne coniato nel Seicento quando la patina aveva un vero e proprio valore estetico, al punto che si arrivava a simularla con opportune miscele di vernici.
Una parte dell’estetica contemporanea, e un capitalismo che vuole vendere sempre nuovi prodotti, vede il passare del tempo come uno nemico. È anche vero che nelle nostre case possono convivere Google Home e un giradischi, nell’armadio possiamo avere dei Jeans vintage accanto gli abiti usati solo in un’occasione. Il passato non smetterà mai di esercitare il suo fascino e, il «Tempo Pittore» è bene che resti relegato nelle accademie artistiche del Seicento. Non dimentichiamoci che anche una nobildonna del XVII secolo
desiderava sempre agghindarsi all’ultima moda.

· minuto 1:04:06 \ Nota 8 \

Il gruppo del Laocoonte, insieme all’Apollo del Belvedere e al Torso del Belvedere, ha rivestito importanza notevole per la ricezione culturale dell’arte classica in età moderna e ha avuto un’influenza sullo sviluppo successivo della Storia dell’Arte. Le tre sculture godettero di grande fama e fortuna nei secoli successivi al loro ritrovamento (tra Quattro e Cinquecento).
Interessante è il caso del Torso del Belvedere, come caso «particolare» di restauro. Se il Laocoonte e l’Apollo hanno subito interventi di restauro e un copioso dibattito critico, il Torso del Belvedere non è mai stato toccato o reintegrato.
Si narra, ma forse è leggenda, che Michelangelo Buonarroti, genio e maestro già per i contemporanei, si rifiutò di completare l’opera, cui mancavano arti e testa, come richiesto da papa Giulio II: il Torso era troppo bello, armonico e già completo così com’era.

· minuto 1:33:10 \ Nota 9 \

Eugène Emmanuel Viollet-le-Duc è stato un architetto francese del XIX secolo, conosciuto soprattutto per i suoi restauri degli edifici medioevali condotti secondo il suo immaginario del Medioevo, con risultati tra il falso e la pura invenzione fantastica.
Viollet-le-Duc con la sua opera creò uno stile gotico nazionale francese (neogotico) e trasformò, fino a stravolgere, alcuni edifici. Altre volte reinventò di sana pianta. I suoi interventi di “restauro” erano materia di discussione già tra i suoi contemporanei, ma ebbero l’innegabile merito di salvare dall’oblio un patrimonio in decadenza.
La sua opera divide poiché legata al modo in cui si decide di relazionarsi al passato. Gli interventi di Viollet-le-Duc vanno contestualizzati nella cultura Romantica e nel nazionalismo del XIX secolo: la ricerca di un’identità, da parte degli Stati nazionali, passò anche per le arti. Il passato doveva essere vicino – quasi sovrapponibile – con l’idea che la nuova nazione (la Francia) stava dando di se.
La tesi di Viollet-le-Duc era di un restauro di ripristino: “Restaurare una costruzione, non è mantenerla, ripararla o rifarla, è ristabilirla in uno stato completo che può non essere mai esistito fino a quel momento”.
L’invenzione del Medioevo, che persiste ancora nell’immaginario comune, fu
un’invenzione non solo di Viollet-le-Duc, ma di tutta la corrente del  Romanticismo.

· minuto 1:40:36 \ Nota 10 \

Il falso artistico viene inteso come oggetto realizzato con la precisa intenzione di
ingannare circa l’autore e l’epoca della sua esecuzione. La distinzione tra falso, copia, replica e imitazione risiede nella diversa intenzionalità. Per questo è difficile individuare un falso senza una dichiarazione di falsità.
Le opere che copiano, replicano, imitano nascono per soddisfare esigenze che sono in primo luogo di studio e conoscenza. Non si può falsificare un artista senza un’approfondita interpretazione critica della sua opera. Il falso assume anche valore “storico-critico”, individuando in esso il modo con il quale, in momenti diversi, ci si accosta alla lettura e all’interpretazione di altre epoche. Copia, imitazione, falsificazione rispecchiano l’aspetto culturale del momento in cui vennero eseguite, il gusto della moda e le predilezioni del tempo.
Nel Novecento, con l’esplodere del mercato di opere d’arte, ci fu un incremento nella falsificazione di opere.
Famoso è il caso di Hans Van Meergen, capace di dipingere alcuni quadri originali (si ricorda la Cena in Emmaus) secondo lo stile di Veermer. Egli ricalcò lo stile sulla lettura che la critica di quegli anni faceva del maestro olandese, riuscendo a produrre falsi che ingannarono tutti finché non ne dichiarò la paternità.
Un falso è “perfetto” quando mostra tutte le caratteristiche di soggetto e stile che ci si aspetta da un determinato artista e, in questo modo, riesce a ingannare il fruitore poiché ritrova nell’opera quello che pensa debba esserci.

Bibliografia

Cesare Brandi, Teoria del Restauro, Einaudi, Torino, 2000

Ferdinando Bologna, Dalle Arti Minori all’Industrial Design; Storia di un’ideologia, ArtstudioPaparo, Napoli,2017

Rudolf e Margot Wittkower, Nati sotto Saturno; La figura dell’artista dall’antichità alla Rivoluzione Francese, Einaudi, Torino, 2016

Massimo Ferretti, Il contributo dei falsari alla storia dell’arte, Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia, Serie 5, Vol. 1, No. 1, Lo spazio e la cultura, 2009

Alessandro Conti, Storia del restauro e della conservazione delle opere d’arte, Mondadori Electa, Milano, 1975