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Francesco Lanzone

calzolaio · Lanzone Bottier

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Difficile dare un nome a chi fa le scarpe. Calzolaio parrebbe chi rattoppa  buchi e incolla tacchi, di scarpe tra l’altro che  spesso non meritano una seconda chance. Calzaturiere lascia intendere produzione industriale e rumorosi capannoni. Ecco che bisogna prendere in prestito una parola francese, “bottier” più dolce dell’inglese “shoemaker” e più elegante dello spagnolo zapatero, per indicare chi invece comincia dal principio, dalla forma di legno, dal cuoio e dalla pelle, che le scarpe le fa un paio alla volta proprio per un certo piede, una certa persona. Come Francesco  che con studi di design industriale alle spalle, ha preferito fare un passo di lato e imparare a tagliare, cucire, lucidare, scarpe eccellenti.

Note a margine

a cura di Francesca Rossi

· La concia che fa traboccare il vaso \ Nota 1 \

Nel 1954, la Commissione Esecutiva del Consiglio Nazionale delle Ricerche scelse la conceria Presot di Porcia per la materia prima degli scarponi per la scalata del K2. Era la prima volta che si guardava ad una montagna così lontana dal proprio naso, non una qualunque ma la gigantesca vetta Himalayana. Sarebbe rimasta nei libri di storia dell’alpinismo mondiale, la spedizione guidata da Ardito Desio che conquistò la cima, e con lei il ricordo del cuoio leggero, flessibile ed impermeabile dell’azienda friulana, messo a disposizione del calzaturificio Giuseppe Garbuio di Montebelluna (K2. Storia della montagna impossibile di Alessandro Boscarino). L’evento, infatti, era stato straordinario, tanto per il gesto quanto per la messa a punto di attrezzature più moderne. Si pensi alla valenza che, più avanti, avrebbe avuto la presenza dello scarpino chiodato per i corridori, e per le loro sorti, in una gara d’atletica. Allo stesso modo, lo scarpone di cuoio fu essenziale per quegli scalatori. Per la prima volta, si cominciava a pensare alla comodità della scarpa come a qualcosa d’indispensabile alle proprie imprese, alle incredibili sfide della propria vita.

· Dimmi le scarpe che indossi e ti dirò chi sei \ Nota 2 \

Se la calzatura, nelle sue varianti, accompagna l’uomo nel mondo, come strumento di libertà e di autonomia nel movimento, è anche vero che alla scarpa sono stati associati i valori di quest’avventura che egli ogni giorno compie. Nell’antica Roma, come in molte altre società del passato, era la calzatura a definire il rango e lo status sociale di un cittadino. Schiavi e ceti bassi, ad esempio, indossavano gli Sculponea, zoccoli di legno, di pelle o pelo di pecora. Non è un caso che Mènec, di famiglia poco agiata, torni a casa con uno zoccolo rotto, e che il padre Batistì, per via delle ristrettezze economiche, gli fabbrichi un nuovo paio di zoccoli: solo con quelli il bambino può ogni giorno affrontare i sei chilometri che lo conducono a scuola (L’albero degli zoccoli, E. Olmi, 1978).
Una delle opere meno famose di Van Gogh, almeno rispetto ai celebri girasoli, è Un paio di scarpe (1886) ed è chiaro che si tratti della calzatura di una contadina.

Ancora, il quantitativo di scarpe, prodotte dal Ministero dell’Abbondanza, è uno dei sinonimi di potenza dell’Oceania ed è alle scarpe col tacco che Julia pensa, quando vuole sentirsi, ed essere percepita come una donna: «[…] Mi metterò delle calze di seta e scarpe coi tacchi alti. In questa stanza voglio essere una donna, non un membro del Partito!» (1984, G. Orwell).
Basmackin, il cognome dell’impiegato di Nikolaj V. Gogol’ (Il cappotto, 1842) dice molto sulla caratterizzazione del personaggio: «E già dal nome si vede che esso, in tempi remoti, aveva avuto origine da una scarpa». In russo, infatti, il termine basmack vuol dire “scarpa”. Il cognome rafforza, dunque, l’idea che gli altri hanno di quest’uomo: la sua svalutazione, il suo carattere di persona dismessa, di impaccio altrui. Infine, se Raskolnikov si accorge di aver macchiato di sangue i suoi stivali dopo l’omicidio (Delitto e castigo, F. Dostoevskij, 1866), il commissario Poirot di Agatha Christie fa delle scarpe un vero e proprio indizio (Poirot non sbaglia, 1940).

· La figura mitica del calzolaio nell’Enciclopedia pittorica Diderot \ Nota 3 \

Senza ali sulle scarpe, eppure in qualche misura messaggero delle strade e dei percorsi che ogni cliente farà indossando la sua opera ai piedi, la rappresentazione iconografica del calzolaio, all’interno della sua bottega, lo vede ritratto sempre nella stessa posizione. Nelle immagini stereotipate, intorno alla vita ben legato, il calzolaio indossa un grembiule ingombro di utensili; e ha le mani guantate, mentre si accinge a cucire, minuzioso, la forma e la calzata del possibile acquirente. Cura, attenzione, strumenti alla mano, c’è del divino nell’essenza del suo lavoro, che pure può definirsi essenzialmente pratico-tecnico: un commercio con le cose.
Nell’arte, cui sono comprese le illustrazioni delle enciclopedie (ce n’è una del XVIII secolo nell’Enciclopedia pittorica Diderot dei mestieri e dell’industria), il calzolaio è rivolto verso il basso, inginocchiato. In una duplice espressione del suo ruolo: avere a che fare con la realtà che si tocca, si maneggia, le res fisica che si costruisce e che sta in basso; e avere a che fare con i piedi, che poggiano a terra ma, al contempo, ci permettono di essere eretti, dunque di puntare verso l’alto. Per questo, forse, il lavoro del calzolaio e il frutto della sua manifattura, la scarpa, sono diventati metafore di altro nel corso della storia. Si pensi alle scarpette di Dorothy, nel Mago di Oz, 1939; a I Racconti di Del Giudice (2016), dove il primo tra i Mercanti di Tempo, che il protagonista incontra, è proprio un giovane calzolaio della Medina occidentale di Rabat; o alle tradizionali scarpette di loto che deformavano, fasciandoli, i piedi delle donne cinesi, secondo la leggenda del loto d’oro e della Danza della luna sul fiore del loto

· Bottier, facciamo un gioco con le parole? \ Nota 4 \

Tradotto in italiano con il termine calzolaio, il bottier francese è in realtà colui che si occupa di realizzare a mano una specifica tipologia di scarpa: lo stivaletto, “le botte”. In particolare, uno di quelli utilizzati durante le Belle Époque. Curioso è che, anche in inglese, per parlare di stivale si usi il termine boot che, a ben vedere, è abbreviazione di bootstrap, “stringa da scarpe”. Ora, non è un caso che boot indichi pure, in linguaggio informatico, i processi eseguiti da un computer nel momento in cui cominci ad operare. La fascetta di cuoio sul retro degli stivali, inserita per rendere più agevole la calzata, ricorda infatti, nel modo d’uso, i processi d’avvio di un computer. D’altra parte, il termine Robot, estratto dal ceco robota, “lavoro forzato”, è il nome degli automi che si sostituiscono agli operai nel dramma fantascientifico di K. Čapek (R.U.R, 1920) e che, nelle funzioni, rimandano al lavoro dell’artigiano.

Come leggiamo, infatti, la parola Robot è un «apparato meccanico ed elettronico programmabile, impiegato nell’industria, in sostituzione dell’uomo, per eseguire automaticamente e autonomamente lavorazioni e operazioni ripetitive, o complesse, pesanti e pericolose: r. di manipolazione, di montaggio, di saldatura, di verniciatura ecc.» (Treccani). 

Tutti termini che, in sostanza, potremmo associare al mestiere del calzolaio. 

Infine, prendendo in prestito altre parole, dal momento che neanche la prima sequenza è certa, possiamo continuare a giocare, prendendo tutt’altra direzione. 

Un’altra associazione allettante diventa, allora, quella con il termine bottale che è tecnicamente un macchinario (contenitore) utilizzato per la concia delle pelli e in Piemonte, quindi al confine con la Francia, nell’uso dialettale della lingua anche un’unità di misura. Non si può non tener conto, a questo punto, dell’oggetto botte, di qualcosa che può ospitare in sé qualcos’altro, come fa l’oggetto scarpa. Dall’olandese, sappiamo che botte significa imbarcazione. Dunque, potremmo rintracciare un duplice riferimento: a qualcosa che si fa contenitore; e all’utilizzo stesso degli stivali, tenendo presenti i termini boot e le botte, per le giornate di pioggia o i terreni paludosi.
Insomma, giocando con i termini e con le possibili etimologie, è curioso notare come le parole si comportino allo stesso modo di un paio di scarpe, portandoci in tante direzioni, in infinite strade. Torna utile, allora, un verso di De Gregori: «e con le stesse scarpe camminare per diverse strade, o con diverse scarpe su una strada sola».

· Il poeta-calzolaio \ Nota 5 \

Nel XIV secolo, veniamo a conoscenza del termine Meinstersinger, per indicare le corporazioni di poeti-artigiani. Nei Maestri cantori di Norimberga (1867) di Wagner, il protagonista è allora un certo Hans Sachs, un “poeta-calzolaio” del Cinquecento, che cade in disgrazia perché gli esponenti della poesia “colta” lo rilegano – soltanto – al ruolo di incolto calzolaio. La storia risulta piuttosto evocativa se si tiene conto del pregiudizio che è ruotato attorno alla figura del calzolaio, considerato poco più che un rozzo manovale, e non un artigiano al servizio dell’arte, intesa come techne (Τέχνη) della scarpa. Senza contare che, più, avanti persino Goethe metterà in scena alcune commedie di Hans.
In Italia, ad esempio, Stefano Bemer ha dato un impatto significativo alla nobilitazione di questo mestiere. L’Accademia fiorentina, che ne porta il nome, ne è massima espressione, così come i nomi delle celebrità che hanno gravitato attorno alle sue creazioni, Julio Iglesias o l’attore Andy Garcia, per dirne qualcuna. Nel 2020 le scarpe di Bemer sfilano con Dolce & Gabbana, all’interno della splendida cornice di Palazzo Vecchio, a Firenze. Il ricco soffitto a cassettoni dorato sempre sposarsi perfettamente con le opere d’arte che i modelli calzano ai piedi.

A frequentare l’istituto, oggi, non solo giovani apprendisti, ma persone che hanno semplicemente voglia di risintonizzarsi con la vita, ap-prenderne il controllo ricominciando dal controllo fuori di sé, sull’oggetto.

· Calzare come un guanto \ Nota 6 \

Per la creazione di una scarpa, che possa dirsi “su misura”, è necessaria la sagoma del piede.
Calzare come un guanto” non è solo un modo di dire, ma evidenzia un aspetto fondamentale del lavoro del calzolaio: la creazione di una copia del piede, a partire dalla presa delle sue misure. Il calzolaio prende nota di tutto: la lunghezza, la larghezza della pianta, il tallone, l’incidenza del collo, persino la forma delle dita e, ancora oggi, realizza la sagoma del piede a mano, quasi si trattasse di una vera e propria scultura in legno. È su questo modello, frutto di misurazioni minuziose, di ogni parte del piede, che viene realizzata la scarpa di prova; quindi, un prototipo che il cliente può indossare, per la valutazione di modifiche ulteriori, prima dell’acquisto. Solo successivamente si arriva alla scarpa, come prodotto finale. 

Per approfondimenti, Scarpe da uomo fatte a mano di Laszlò Vass & Magda Molnàr.

· Far (p)arte dell’esperienza \ Nota 7 \

Nel 1934 J. Dewey, pragmatista americano, scrive un testo fondamentale per chi si occupa di arte, anzi per chi cerca di capire cos’è l’arte (una domanda che, nel 2013, si porrà anche A. Danto col suo What art is?). Spostando l’attenzione dall’oggetto artistico all’esperienza umana dell’oggetto, Dewey compie un passo ulteriore rispetto a chi, prima di lui, considerava l’esperienza estetica il risultato di specifici prodotti reclusi in un museo. Se ciò che conta è l’esperienza, nel senso più esteso del termine, come «intensificazione del senso della vita», allora tutto, anche ciò che consideriamo ordinario, può potenzialmente essere arte.

L’esperienza estetica non è che il luogo esemplare e privilegiato di un modo di funzionare che appartiene già a come noi esperiamo il mondo (alla conoscenza in genere, come direbbe Kant). Non è un caso che Dewey scriva: «Il compito è quello di ripristinare la continuità tra le forme raffinate e intensificate dell’esperienza che sono le opere d’arte e gli eventi, le azioni e le sofferenze quotidiane che sono universalmente riconosciute come esperienza». E ancora: «L’arte denota un processo di azione fattiva. Questo è vero tanto per le arti belle che per quelle applicate. L’arte comprende il modellare l’argilla, lo sbozzare il marmo, il fondere il bronzo, il distendere colori, il costruire edifici, il cantare canzoni, il suonare strumenti […] In breve, l’arte, nella sua forma, accomuna proprio in una stessa azione il fare e il subire, l’energia che esce ed entra, che fa sì che un’esperienza sia un’esperienza». Insomma, «L’esperienza estetica è immaginativa. Questo fatto […] ha oscurato il fatto più vasto: che ogni esperienza cosciente ha necessariamente un qualche grado di qualità immaginativa. Perché, mentre le radici di ogni esperienza si trovano nella interazione dell’essere vivente con il suo ambiente, quella esperienza diventa consapevole, un fatto della percezione, soltanto quando penetrano in essa significati che derivano dalle esperienze». (Art as Experience, J. Dewey, 1934). È in quest’accezione, ampliata ma intensa di arte e di esperienza, che un artigiano, quindi anche un calzolaio, può considerarsi un artista, nell’uso della sua immaginazione e nell’associazione di significati a quella che, se prima è solo la sua esperienza, diventa poi esperienza di chi compra la sua opera, rinnovandosi di senso ogni volta.

· Storia unisex di una calzatura, di genere? Il tacco di Luigi XIV \ Nota 8 \

Perché gli uomini hanno smesso di indossare i tacchi?
Tra il 2015 e il 2016 il Bata Shoe Museum di Toronto, in Canada, ha dedicato ai tacchi delle scarpe maschili la mostra Standing Tall

È noto che i cavalieri persiani indossassero i tacchi, sfruttandoli per reggersi meglio sulle staffe e rimanere fermi nel lancio delle frecce dai propri archi. Ed è, per imitare quella virilità, che il tacco da uomo si diffuse in Europa, in particolar modo tra le fila dei ceti più agiati e dell’aristocrazia. 

Portare i tacchi era sinonimo di status sociale maggiore, perciò Luigi XIV fu per eccellenza uno dei suoi maggiori indossatori. È un tacco rosso acceso quello che calza, ad esempio, nel quadro Ritratto di Luigi XIV, commissionato al pittore di corte Hyacinthe Rigaud, realizzato nel 1701.

La rinuncia a questo tipo di calzatura avvenne soltanto con l’avvento dell’Illuminismo, di quella corrente cioè che portò alla ribalta concetti come razionalità e praticità. Così, il tacco scomparse dall’abbigliamento maschile, tornando in scena – letteralmente – secoli più tardi. Si pensi agli stivali texani, al western o allo stivaletto Chelsea di John Lennon. 

Indossavano stivaletti col tacco David Bowie, Elton John, Bob Dylan, Steven Tyler, i Deep Purple, Jim Morrison e, senza andare oltreoceano, Le Orme e Renato Zero in Italia. 

Il tacco cominciò a rappresentare l’indumento trasgressivo del glam rock e di un tipo di musica che cercava di rompere con le regole. Non è un caso che tuttora il front man dei Måneskin indossi il tacco in più di qualche occasione. Chissà cosa ne avrebbero pensato i cavalieri persiani!

· Estetica e bellezza (non) sono la stessa cosa \ Nota 9 \

Mai ci fu parola più blasonata nel corso della storia, specialmente se connessa al concetto di bellezza e, a sua volta, all’opera esclusiva del genio, della sua creatività sui generis; di una disposizione sovrannaturale altra rispetto alle regole e quindi frutto unicamente di una sorta di “follia”. Almeno, fino a Kant. Per il filosofo tedesco, infatti, se è vero che «Genio è il talento (dono naturale) che dà la regola all’arte» e «le belle arti debbono essere necessariamente considerate come arti del genio», non esiste arte bella che non preveda gesti meccanici; quindi, espressi ed eseguiti secondo regole, secondo «qualcosa di scolastico», perché è questa «l’essenziale condizione dell’arte». 

Così, «il genio può solo fornire una ricca materia ai prodotti dell’arte bella; ma la sua elaborazione e la forma richiedono un talento formato dalla scuola». 

La bellezza non è avulsa dalle regole, né dalla tecnica o dall’esercizio di essa. E se bello non è piacevole, è un di più, la bellezza non è neanche una qualità dell’oggetto, piuttosto ciò che sentiamo come libero gioco, e libero accordo delle facoltà conoscitive. L’esperienza del bello allora non è che la dimostrazione di questo movimento, di un’immaginazione e un intelletto che accordandosi giudicano ponendo a priori un semplice “come se”. Come se il mondo fosse stato disposto così per noi: strutturato a favore delle nostre capacità (Critica della facoltà di giudizio, I. Kant, 1790).

·  Cuir de Russie, il profumo del cuoio e la memoria olfattiva \ Nota 10 \

Il cuoio ha un profumo, e certo doveva saperlo Chanel che, nel 1924, mise a punto Cuir de Russie, una fragranza che, a tre anni dall’uscita dell’iconico Chanel No.5, ricordava l’odore degli stivali conciati indossati dai soldati russi. D’altra parte, se Proust l’aveva ipotizzata, all’interno de À la recherche du temps perdu, la scienza, a partire dagli anni ’70, cominciò a dimostrare l’esistenza della memoria olfattiva e, anzi, la forza delle immagini olfattive che, rispetto alle visuali, avevano la capacità di non invecchiare e di restare intatte nel tempo (esperimento di Engen e Ross, 1973).
Il senso dell’olfatto dimostrava una stretta connessione con la memoria episodica (individuata la prima volta in Organization Memory, Endel Tulving, 1972), quella che ci permette di rivivere le esperienze passate. Collegandosi direttamente alle strutture cerebrali coinvolte nell’emozione e nell’utilizzo della memoria (l’amigdala e l’ippocampo), oggi si ritiene che l’olfatto sia il senso privilegiato per l’accesso ai ricordi (A review on the neural bases of episodic odor memory: from laboratory-based to autobiographical approaches, Saive, Royet, & Plailly, 2014).

· Da glaçage a De Sica \ Nota 11 \

«Action de glacer, d’appliquer sur un objet un enduit qui lui donne l’apparence du vernis», così riporta il dizionario francese. Dunque, glaçage è rendere la superficie di un oggetto brillante, donargli «l’apparenza della verniciatura». Avere le scarpe ben pulite è sempre stato, d’altra parte, sinonimo di accuratezza e nobiltà. Per questo, esistevano i lustrascarpe, la cui presenza era abituale nelle strade delle città, con il loro banchetto e l’apposita seduta per gli avventurieri. Nel 1838, a Boulevard de Temple, venne scattata la prima foto della storia ad un lustrascarpe. Munito di vari tipi di lucido, una pezza di lino, qualche spazzola e tanto olio di gomito, l’uomo inginocchiato si apprestava a rimettere a nuovo le scarpe di un monsieur borghese francese, in compagnia della sua madame.
Durante il dopoguerra, ci fu persino chi, dall’Italia meridionale, esportò il mestiere oltreoceano, in America. È qui che il termine lustrascarpe si trasformò nel napoletano sciuscà, una modificazione di pronuncia dell’inglese shoeshiner (“lustrascarpe”). Sciuscià: come il titolo del capolavoro cinematografico neorealista che valse a Vittorio De Sica il primo Oscar italiano al miglior film in lingua straniera.

· Oxford e Richelieu, due nomi per la stessa calzatura \ Nota 12 \

Calzatura che fece la sua prima comparsa intorno al XIX secolo, inizialmente in Irlanda e Scozia, come alternativa leggera agli stivali, questa tipologia di scarpa, probabilmente la più elegante in assoluto, assunse poi due nomi diversi in due – altrettanto diversi – paesi (Inghilterra e Francia): perché?
Il nome Oxford fu attribuito a questa calzatura dagli inglesi, perché ad indossarla per primi, come suggerito dal termine, furono gli studenti high society dell’Università di Oxford. Per rispondere al rigore e al buon nome della scuola, era necessario infatti prestare una certa attenzione all’abbigliamento, e quindi alla calzatura. Il nome Richelieu fu coniato, invece, dai francesi, derivandolo dall’antica cucitura, con barrette ornate da pippolini, con cui il cardinale Richelieu amava impreziosire i suoi colli.

· Il Brogue, quando fare acqua da tutte le parti è necessario \ Nota 13 \

Calzatura che fece la sua prima comparsa intorno al XIX secolo, inizialmente in Irlanda e Scozia, come alternativa leggera agli stivali, questa tipologia di scarpa, probabilmente la più elegante in assoluto, assunse poi due nomi diversi in due – altrettanto diversi – paesi (Inghilterra e Francia): perché?
Il nome Oxford fu attribuito a questa calzatura dagli inglesi, perché ad indossarla per primi, come suggerito dal termine, furono gli studenti high society dell’Università di Oxford. Per rispondere al rigore e al buon nome della scuola, era necessario infatti prestare una certa attenzione all’abbigliamento, e quindi alla calzatura. Il nome Richelieu fu coniato, invece, dai francesi, derivandolo dall’antica cucitura, con barrette ornate da pippolini, con cui il cardinale Richelieu amava impreziosire i suoi colli.