/pla·ṣmà·re/
/a·po·tro·pài·co/
/su·per·sti·zió·ne/
/nà·po·li/

Francesco Cretella

scultore plastico · Bottega Cretella

/pla·ṣmà·re/ · /a·po·tro·pài·co/ · /su·per·sti·zió·ne/ · /nà·po·li/ · /ve-sù-vio/ · /fuò·co/· /tra·di·zió·ne/ · /pro·grès·so/ · /san·gre·gò·ri·o/ · /san·gen·nà·ro/·/pìz·za/ · /ar·gìl·la/ · /ṣmòr·fia/

Plasmare la materia è un atto degno degli dei e chi si fa carico di dare forma all’informe per un attimo possiede la forza dell’intero universo. Anche se hai solo una piccola bottega, anche se sei giovane con Francesco. Quando tra le mani l’argilla umida diventa un cornetto scaramantico, oppure una figura mitologica, una gorgone, un santo o la statua di Maradona, in quel momento un pezzetto di caos diventa ordine, un pezzetto di terra si fa cosa e intrappola quello che ci si è voluto mettere dentro, fede, credulità, fiducia, orgoglio. Il fuoco cuoce e fissa il tutto garantendogli l’imperturbabilità, ma il vero valore c’è solo quando l’oggetto passa di mano, desiderato, atteso, cercato. Esiste una dimensione metafisica in quest’arte, ancora più accentuata a Napoli, città dove la sorte è sempre incerta e la smorfia diventa reale, dove il sangue ancora si liquefa e le statue del presepio osservano mutevoli la tradizione che si rigenera.

Note a margine

a cura di Anna Galvagno

· MINUTO 7:32 \ Nota 1 \ Le pulsazioni della sanguigna

Un circuito pulsante di ematite si nasconde sotto i dipinti del passato. 

È la tecnica della sanguigna. Conosciuta nel mondo dell’arte dai tempi più remoti, ma impiegata soprattutto dal Rinascimento, per il disegno su carta. Un tratto di matita di un colore simile al sangue rappreso era utilizzato per bozzetti, schizzi, esperimenti, sfumature. 

Il disegnatore, scegliendo la sanguigna, stringe un patto etimologico con il foglio davanti a sé. La sanguigna è prodotta con l’ematite, un minerale ferroso. Deriva da “aima”, in greco, che vuol dire sangue. 

Perciò ecco sancito il patto: se la pittura a olio insegue la perfezione, la sanguigna segue il ritmo, le pulsazioni del cuore. 

Imperfezione e impulso. Contrazione ed espansione. Il sangue del disegnatore esce dal cuore, si propaga nel labirintico circuito di arterie, corre nei capillari delle dita della mano, entra nella matita e si spande sulla pagina in tratti rossi e sottili. I movimenti del disegnatore sono rapidi, decisi. La polvere di ematite si sfuma e si spande sulla carta come caligine, crea mappe e percorsi che forse il cervello non ha ancora avuto tempo di scandagliare. 

Così sono nati i bozzetti di Michelangelo per la Cappella Sistina. Così Leonardo ci ha regalato il suo unico autoritratto. 

Veloci, leggeri, immediati, sono i tratti di matita della bozza preliminare, in tutta la sua incompletezza e passionalità. Ci sono momenti in cui gli errori sono ammissibili. Anzi, necessari. È solo osservando ed elaborando l’errore che si arriva al capolavoro. 

Gli artisti ci ricordano che un circuito pulsante di matite si muove, rapido e leggero, sotto ogni desiderio di perfezione.

· MINUTO 16:31 \ Nota 2 \ L’arte di illuminare a Napoli

Molti considerano terrificanti le mie opere e allora intervengono chiedendo di disegnare cose più allegre, floreali, carine (è la dittatura del carino!). Non li assecondo. Perché se da un lato è prezioso il loro coinvolgimento emotivo, dall’altro lo è anche la mia autonomia” (http://www.cyopekaf.org/qs/)

La coppia di artisti Cyop&Kaf descrive così l’intento creativo dietro la realizzazione del progetto “Quore spinato”. Centinaia di murales sbucano dai vicoli dei quartieri spagnoli di Napoli, soprattutto tra le rovine di edifici mai riqualificati dopo il terremoto del 1980.

Abbasso la dittatura del carino! I loro murales, dove sembrano agitarsi le ombre del subconscio e delle ossessioni, sembrano usciti da un quadro di Dalì o De Chirico. Ed è l’abitante o il passante dei quartieri spagnoli a entrare nel quadro, a diventare protagonista di una caccia senza tesoro, fatta di tanti piccoli indizi: un’ombra è sul punto di gettarsi da un balcone, un Nettuno è immerso fino al collo nelle acque, due donne nude osservano le loro forme molli e sensuali, un cavaliere dal naso lungo e rosso pianta una lancia in un cumulo di foglie secche. 

Se Cyop&Kaf sussurrano, Jorit urla, si sbraccia, sbandiera. Due righe rosse attraversano le guance di Pasolini, Che Guevara, Maradona, Frida Kahlo, San Gennaro, Pino Daniele, George Floyd, ed altri esponenti della stessa “tribù umana”: coloro che hanno esposto la propria esistenza con una chiarezza tale da farne emergere le ferite e tramutarsi in simbolo. 

Il messaggio di Jorit è esteso quanto un palazzo. Come dice lui stesso: “Le “strisce” sono una citazione alla pratica africana della scarnificazione. Simboleggiano l’unità della tribù opposta alla singolarità”(https://www.thewalkman.it/jorit-il-valore-di-un-volto-intervista/). Quelle ferite rosse popolano i quartieri di Napoli come Scampia. Scavano nella mente di abitanti e passanti e così facendo, tentano di avvicinare gli uni agli altri. Di unire, invece di contrapporre. 

Ma guai a parlare di riqualificazione o intervento sociale. “Qui non c’è nulla da dimostrare e molto da fare ancora” (http://www.cyopekaf.org/qs/), ricordano Cyop&Kaf. 

Il riscatto passa dalla presa di coscienza, e i murales, se proprio devono avere uno scopo, allora servono proprio a questo. A illuminare. 

Come del resto fa l’arte in generale: è un avamposto, un faro acceso nella notte in grado di illuminare gli anfratti più bui forzando il nostro sguardo su di ciò che non vorremmo vedere, che sia un quartiere, un palazzo, un vicolo, o il nostro subconscio.

· MINUTO 33:50 \ Nota 3 \ Dalisi e le caffettiere

Il caffè a Napoli è notoriamente amaro, robusto e deciso. Quando lo bevi, stai gustando un concentrato di storia e tradizione partenopea: il suo aroma così peculiare, il colore e le proprietà eccitanti l’hanno reso, per tutto il 1600, la bevanda del demonio. 

Ma anche se il potente clero locale lo ostracizzava, il caffè venne subito messo su un piedistallo dai napoletani: ad esempio, era considerato una pozione perfetta per i convalescenti. (https://napolipiu.com/il-caffe-napoletano-i-riti-il-profumo-e-la-varieta-della-bevanda-simbolo-di-napoli)

Il caffè napoletano è diventato un simbolo in Italia, tanto quanto lo strumento per produrlo: la caffettiera napoletana, prima di essere soppiantata dalla più efficiente moka progettata da Alfonso Bialetti, fu parte integrante delle case italiane tanto quanto la televisione o il panettone a Natale.

Forse è anche per un omaggio a questo potente simbolo che Riccardo Dalisi, architetto, designer, scultore e pittore affermato in Italia e nel mondo, ha dedicato una fase del suo percorso artistico alle caffettiere napoletane. 

Dalisi le rinvigorisce e le rianima con una sapiente lavorazione della latta saldata a stagno. Le caffettiere si trasformano in un abbraccio di due innamorati, un cavaliere al galoppo, una ragazza che scalcia le gambe in aria, un pifferaio magico. (https://www.riccardodalisi.it/caffettiere/)

Ciò che ricerca è la poesia del quotidiano, la scoperta delle cose nel loro carattere più intimo. Non è un caso che una sua grande ispirazione sia proprio Pinocchio di Collodi, il libro delle trasformazioni: da burattino ad asino, da asino a bambino.

Come uno scrittore o un poeta, Dalisi riscrive la storia di un oggetto e la arricchisce. Soffia nell’oggetto una nuova linfa vitale, e quindi gli restituisce una faccia, un’espressività, una gestualità, un carattere. 

Batti, piega, taglia, salda, ripiega. Dalisi crede che dando vita a nuovi oggetti, si dia vita anche a nuove persone. Per questo ha fondato la Cooperativa “Iron Angels” con un gruppo di giovani del Rione Sanità, che introduce alle tecniche antiche della lavorazione del metallo. L’arte diventa per loro una via di fuga.

Come le parole, che in passato trasformarono una semplice bevanda in uno strumento del maligno, o bevanda curatrice, a seconda dei casi, anche l’arte ha un potere trasformativo su chi crea e chi osserva.

La sfida per chi crea con il metallo è semplice e complicatissima: abbandonare la pesantezza e osare spingersi in alto, oltre la forza di gravità.

Anche chi osserva non è escluso dalla sfida: in giro per la città di Napoli, queste figure da fiaba contorte e brillanti, che si librano in volo, ballano, si abbracciano, invitano a staccarsi da terra e imitarle, anche solo per un attimo. 

· MINUTO 1:15:30 \ Nota 4 \ La livella

A morte ‘o ssaje ched”e?…è una livella.

‘Nu rre,’nu maggistrato,’nu grand’ommo,
trasenno stu canciello ha fatt’o punto
c’ha perzo tutto,’a vita e pure ‘o nomme:
tu nu t’hè fatto ancora chistu cunto?

Perciò, stamme a ssenti…nun fa”o restivo,
suppuorteme vicino-che te ‘mporta?
Sti ppagliacciate ‘e ffanno sulo ‘e vive:
nuje simmo serie…appartenimmo à morte!”

(La livella, Totò, 1964)

La morte è una falce che appiattisce e livella tutto ciò che ci siamo costruiti in vita: lo status sociale, la reputazione, i sogni, le aspirazioni, i risultati ottenuti con il sudore della fronte. 

Tutte pagliacciate che i morti osservano ridendo, con occhio bonario e divertito. Non sanno che farsene, loro, delle distinzioni sociali. Antonio De Curtis lo sapeva bene.

Totò proveniva dal rione Sanità e spesso giocava da piccolo tra le Catacombe di San Gaudioso, vicino alla chiesa dove faceva il chierichetto. 

Durante una partita di nascondino, eccolo intrufolarsi nei cunicoli delle catacombe. Una corsa forsennata, un vicolo cieco, e in fondo un affresco. Il piccolo Antonio si avvicina circospetto, il cuore batte impetuoso nel petto. Si ferma: uno scheletro spaventoso, sormontato da una coccarda rosa, gli occhi vuoti, sembra chiamarlo a braccia aperte. Ai suoi piedi una clessidra, simbolo del tempo che passa.

L’affresco di Giovanni Balducci in cui si è imbattuto Totò è solo una delle tante raffigurazioni legate alla morte, a Napoli. Qui, i morti sono protagonisti più che in ogni altro luogo.  I defunti senza nome contano tanto quanto i “granduomini” o i “magistrati”. 

Del resto, la morte incombe su Napoli, da sempre. Ha la forma conica e iconica del Vesuvio, “quel gentile idolo, quella specie di gran Budda seduto sul davanzale del golfo”, come lo descrive Curzio Malaparte. 

Per quanto suggestivo, il vulcano getta un’ombra di incertezza sulla città e sui suoi abitanti. I napoletani sentono il magma ribollire sotto i piedi e non sanno decidere a quale divinità, pagana o cristiana, appellarsi per scongiurare la catastrofe. Nel dubbio, le scelgono tutte. Perché sanno che il confine tra vita e morte è più labile di quanto si pensi, ed è bene tenersi pronti, comunicare con la morte, anziché sfuggirle. 

I morti e i vivi comunicano a Napoli più che in ogni altro luogo. Ad esempio, alcuni vivi si prendono cura delle anime povere e senza nome, le Pezzentelle, che si trovano nel Cimitero delle Fontanelle. Adottano i teschi delle fosse comuni e degli ossari, risalenti alla grande peste del 1656 o all’epidemia di colera del 1836. Spesso le accolgono in una teca di legno, la scarabattola, e danno loro un nome e una dignità. La scarabattola è chiusa da uno sportello di vetro che protegge il teschio, ma è anche un elemento decorativo, con intagli, dorature, pitture, figure e fiori scolpiti. 

Le capuzzelle, così si chiamano i teschi, a loro volta restituiscono il favore ai vivi. Come la capuzzella di Donna Concetta, ‘a capa che suda: basta chiedere una grazia mentre tocchi il suo teschio imperlato di sudore, e se la tua mano resta umida puoi sperare che Donna Concetta abbia dato ascolto alle tue preghiere.

Un’interpretazione di questi riti viene data anche da Luciano De Crescenzo nel suo libro “Tutti i santi: me compreso”, in cui confessa:

“I napoletani sono un popolo pieno di devozione cristiana, ma non hanno mai veramente abbandonato le tradizioni pagane. Sono sempre rimasti un po’ politeisti. È proprio l’idea di Dio, del Dio che è uno, che noi napoletani facciamo fatica a digerire. […] Noi non diciamo mai “Mio Dio”, preferiamo rivolgerci a qualcuno di più preciso, per questo invochiamo i santi […]. In certi casi particolari, si sceglie di rivolgersi alle anime del purgatorio”. 

Quindi adottare una capuzzella non è solo un modo per omaggiare un morto, ma significa anche aiutare un’anima del Purgatorio nell’espiazione dei suoi peccati. 

È uno scambio continuo di favori, quello tra i vivi e i morti.

· MINUTO 45:05 \ Nota 5 \ Apotropaico, /a·po·tro·pài·co/

Dal greco ἀποτρέπω, apotrépo, che significa «allontanare». Apotropaico è un rito, un oggetto, un animale o una formula che allontana un’influenza maligna. 

Esempi: 

“Sciò sciò ciucciuvè, uocchio, maluocchio e funecelle all’uocchio. Aglio, fravaglio, fattura ca nun quaglia, corne e bicorne, cape’e alice e cape d’aglio diavulillo diavulillo, jesce a dint’o pertusillo sciò sciò ciucciuvè jatevenne, sciò sciò!”

Una formula magica pronunciata dallo Sciò Sciò, personaggio goffo, malizioso e allegro che si può trovare all’interno del presepe napoletano tradizionale, o in giro per Via San Gregorio Armeno, pronto a tirarvi addosso un po’ di sale, simbolo di buon auspicio.

  • La Bella ‘mbriana, figura femminile piacente e benevola del focolare domestico, si manifesta sotto forma di geco. Ma guai a farla arrabbiare con una casa disordinata o con un trasloco imminente! Meglio salutarla entrando in casa, e riservarle sempre un posto vuoto a tavola.
  • L’irrinunciabile cornetto napoletano, da tenere in tasca, ricorda la forma di un corno animale. Dai tempi più remoti il corno è un simbolo magico di prosperità, potenza sessuale, fortuna. 

Ma attenzione! Il cornetto non può mai essere comprato. Bisogna farselo regalare da qualcuno perché abbia il potere di scacciare gli influssi negativi. La “pelle d’angelo”, un corallo rosa proveniente dal Giappone, viene lavorata a Torre del Greco per creare cornetti ancora più preziosi. È noto infatti che un buon cornetto impallidisce assorbendo la negatività che lo circonda. Il colore rosa funziona meglio! Promemoria per quando si desidera acquistare, anzi, regalare il prossimo cornetto.  

Un uovo magico è nascosto e murato all’interno di Castel dell’Ovo, il castello a picco sul mare affacciato sul golfo di Napoli. Si dice che sia stato il poeta Virgilio, famoso a Napoli per le sue pratiche magiche, a inserirlo in un’anfora di vetro, e in una gabbia di metallo. La malaugurata rottura dell’uovo provocherebbe sciagure e rovina in tutta la città. 

Napoli si poggia su mille oggetti apotropaici, colorati e buffi come un cornetto di corallo, ma anche fragili e preziosi come un uovo.

· MINUTO 1:07:45 \ Nota 6 \ La mano de Dios

“Sai come si chiama questa cosa che ha fatto Maradona?”
“Le punizioni”
“No. Si chiama perseveranza. Io non ce l’avrò mai. E tu dovrai avercela per forza Fabbiè”.
(È stata la mano di Dio, regia di Paolo Sorrentino, 2021)

Quando Maradona arrivò a Napoli nel 1985 fu un tripudio di bandiere biancoazzurre: lo stadio San Paolo, oggi Stadio Maradona, era gremito di gente corsa ad accoglierlo. I tifosi non furono delusi: il Napoli vinse lo scudetto, la coppa Italia, la Supercoppa e la Coppa UEFA. Tutto nel giro di cinque anni. 

Le statuette del presepe con la sua immagine sono diventate statue vere, dopo la sua morte, nel 2020. La prima si trova nel piazzale di fronte allo Stadio Maradona ad accogliere i tifosi; la seconda in bronzo è dentro agli spogliatoi a motivare i giocatori; un’altra, collocata al museo Archeologico di Napoli, raffigura il calciatore in posa come la Nike di Samotracia.  Come se non bastasse, alle statue si è aggiunto anche un altarino inaugurato nei Quartieri Spagnoli. 

Insomma: Napule è mille culure, cantava Pino Daniele, ma è anche fatta di mille volti di Maradona sparsi per la città. I murales più famosi? Quello del 1990 realizzato da Mario Filardo in onore del secondo scudetto vinto dal Napoli, e quello di Jorit a San Giovanni a Teduccio, del 2017. Jorit lo raffigura con due tagli sulle guance, simbolo della “tribù umana” di cui fa parte. 

Il mito di Maradona a Napoli resta inossidabile, nonostante gli scandali e le controversie che lo circondano. È un simbolo di riscatto, un esempio di perseveranza nella buona e nella cattiva sorte. È diventato la personificazione di un preciso stato d’animo napoletano. 

Infatti il calcio, e lo sport in generale, insegnano ciò che a Napoli si conosce già da tempi antichi. Le sciagure, le sconfitte e il dolore sono sempre dietro l’angolo, e non sempre dipendono dalla volontà. Ma non ne deriva una paura paralizzante, quanto piuttosto una caratteristica tipica dei napoletani, ben descritta da Giuseppe Marotta nel suo libro “L’oro di Napoli”, 

 “La possibilità di rialzarsi dopo ogni caduta; una remota, ereditaria, intelligente, superiore pazienza”.

· MINUTO 20:20 \ Nota 7 \ La parola al monaciello

Paolo Sorrentino mi ha chiamato e mi ha chiesto di partecipare in una scena nel suo ultimo film. La nota della sceneggiatura dice: “L’avvenente Patrizia si rivolge alla benevolenza del monaciello, il monaco bambino, per chiedere la grazia di rimanere incinta”. 

Ho deciso di accettare il ruolo per amicizia verso un conterraneo. Del resto, a lo besuogno se canoscene l’ammice. Gli amici si conoscono al momento del bisogno. 

Intendiamoci, uagliò: a Napoli sono famoso. Mi manifesto spesso agli abitanti con piccoli gesti di simpatia, antipatia o apprezzamento. Ad esempio, se mi stai antipatico, pudèssi che perderai oggetti inaspettati o ti si spaccherannno misteriosamente i piatti in casa. 

Del resto, non sono nato sotto l’insegna del rispetto delle regole. Mia madre, Caterinella Frezza, era figlia di un ricco mercante di panni ed era innamurata del garzone Stefano Mariconda. Sono nato dal loro amore proibito, ma subito punito. Nel 1400 non si perdevano in chiacchiere: mio padre lo ammazzarono e mia madre si rifugiò in un convento. Io nacqui e mi feci grande lì. 

Sono sempre stato brutto, anche da vivo. Tengo una capa troppo grossa e un corpo minùtu. Perciò sono stato deriso da tutti. Mentre passeggiavo per il quartiere Porto, molti mi guardavano con disgusto, alcuni con sospetto, pochi si ‘ntennerivano. Ho imparato presto a ripagarli con la stessa moneta: dispetti o regali, a seconda dei casi. 

Comunque, la mia statura mi ha permesso di trovare un lavoro come pozzaro. Gestivo i pozzi dell’acqua e per questo riuscivo a trase in ogni cunicolo e nelle case di chi vulivo

Dopo che sono morto, sono diventato chiù famoso e chiù dispettoso. Adesso che i pozzi sono spariti, mi devo organizzà. Un giorno, sono entrato nella casa di un ricco signore attraverso le tubature e ho arrubbato uno o due anelli, una collana e qualche brillòcco. Ma sono molto generoso con chi ne ha bisogno. Con un cenno della mano, invito le persone bisognose a seguirmi, e chi ha il coraggio di farlo riceve sempre una ricompensa: un tesoro perduto, o una grazia che aspettava da tempo. 

 “Ora Patrì, chinati in avanti, e bacia il capo del Monaciello. Porta bene.
Ecco! Adesso potrai avere tutti i figli che vuoi, Patrizia bella”
(È stata la mano di Dio, regia di Paolo Sorrentino, 2021)

· MINUTO 35:54 \ Nota 8 \ Un Frankenstein napoletano

«Si – può – fare!»

Lo scienziato pazzo in Frankenstein Junior, gli occhi sbarrati, i capelli scarmigliati, lancia un urlo di gioia quando scopre un modo per fermare la morte. 

Chissà se anche Raimondo di Sangro, settimo principe di San Severo, abbia mai gridato una frase simile, durante uno dei suoi folli esperimenti che turbavano il quieto vivere della Napoli settecentesca. 

Nella parte a lui dedicata della cappella Sansevero troviamo, riflessa nei simboli o esperimenti esoterici, quella stessa ossessione di fermare il tempo, di bloccare il decadimento degli anni, e addirittura di porre un freno alla morte. 

“Guai a lasciarsi vincere dalle leggi della natura, guai a morire, a deperire, o peggio, esser dimenticati!”. Lo spirito del principe sussurra attraverso le statue della cappella. 

La statua del Disinganno, commissionata dal Principe, raffigura un uomo avviluppato da una rete. È incredibile l’abilità del suo autore, Francesco Queirolo, di scolpire una rete dalle maglie fittissime nel marmo.

La simbologia massonica è evidente, e ambivalente. Infatti la statua è, da una parte, un riferimento al passaggio iniziatico del massone e il suo ingresso alla luce della verità e della conoscenza massonica. È il simbolo della liberazione dell’uomo dalle tenebre. Ma dall’altra parte, esprime anche il desiderio, l’ossessione di ghermire, di catturare il senso della vita e della morte attraverso esperimenti alchemici.

I “corpi pietrificati”, poco distanti, sono il frutto di questi esperimenti. La leggenda narra che il principe abbia ucciso i suoi due servi, un uomo e una donna, e iniettato nel loro corpo una sostanza in grado di trasformare il sangue in metallo. Anche chiamati “macchine anatomiche”, questi umanoidi sono invischiati in un reticolo di vene e arterie di varie leghe metalliche, sembrano chiamare chi le osserva, implorare, chiedere di liberarle dal sortilegio e lasciarle finalmente riposare in pace. 

“Non capite la bellezza? Li ho benedetti con l’immobilità e l’eternità” sibila la voce.

Lo sguardo si posa infine sulla statua del Cristo Velato di Giuseppe Sanmartino, illuminata dalla luce che filtra dalle vetrate. La leggenda narra che il velo che ricopre la statua non sarebbe scolpito, ma si è trasformato in marmo dopo un complesso esperimento chimico del Principe. 

Un essere umano non sarebbe mai stato in grado di realizzare pieghe così definite, trame così intricate, movimenti lucidi del tessuto che lasciano intravedere e quasi toccare il corpo sottostante. Sembra che quel velo di marmo possa sollevarsi e gonfiarsi al minimo soffio di vento. 

Essere un ricco mecenate non è per il Principe uno sfoggio di ricchezza quanto piuttosto l’ultima, estrema magia, per lasciare una traccia e garantirsi l’immortalità. 

“Sicuramente sono riuscito nel mio scopo”, la voce del Principe risuona nella navata centrale adesso, lenta e grave. “Se mi si nomina per strada, in giro per la città, i miei concittadini si fanno ancora il segno della croce. Dopo molti secoli, hanno ancora paura di me, Raimondo di Sangro, settimo principe di San Severo”. 

· MINUTO 1:29:20 \ Nota 9 \ La pietà di Jago

Per sedici mesi sono stata chiusa dentro un blocco di marmo nella chiesa di Sant’Aspreno ai Crociferi e solo da ottobre del 2021 sono finalmente venuta al mondo. 

Mi chiamano “Pietà” e sono stata sottratta al marmo che mi racchiudeva da un certo Jago, che suppongo sia un famoso scultore visto che il suo telefono squilla in continuazione e lui risponde in inglese o italiano, a seconda dell’interlocutore. Ha trasformato la chiesa in una specie di laboratorio: teli di nylon, impalcature e martelli mi circondano, l’aria è fredda ma non troppo umida, e regna un gran silenzio, rotto soltanto dalle chiacchiere degli abitanti del quartiere che si rinfrescano all’ombra del portone d’ingresso. 

Jago è un gran comunicatore. Rilascia spesso interviste su di me o su altre sue creazioni. Una volta ha citato una scultura di un neonato il cui cordone ombelicale era una pesante catena. Da quel che ho sentito, era esposta al pubblico in piazza del Popolo a Napoli durante una pandemia scoppiata nel 2020. 

Ma quando lavorava su di me, il telefono non esisteva. Jago assumeva un’espressione severa e concentrata dietro la maschera protettiva, mentre sottraeva marmo dal blocco in cui ero racchiusa, strato dopo strato, a colpi di scalpello, tiranti, martelli elettrici, subbie, raspe, molatrici, dischi diamantati. 

Ogni tanto arrivava qualche fotografo sfrontato a immortalare la mia incompiutezza mentre Jago lavorava su di me lentamente e senza distrarsi, con una pazienza che a volte trovavo esasperante visto che io volevo solo prendere aria e mostrarmi finalmente al mondo. 

Un giorno lo sentii triste e mi accorsi che una notizia doveva averlo turbato. Quasi non toccò la mia superficie, lanciava invece sguardi nervosi al cellulare e alla porta d’ingresso passandosi la mano sulla testa calva come la mia. A un certo punto aprì la porta a cinque ragazzini. Erano tutti molto nervosi, Jago compreso, e sorridevano forzatamente attraverso le mascherine. Commentavano un episodio spiacevole che aveva fatto scalpore in tutto il paese e di cui adesso si vergognavano: i ragazzini avevano tirato calci al neonato in Piazza del Popolo. Questo, subito, mi oltraggiò. 

Uno dei ragazzi volse lo sguardo ammirato su di me. Jago se ne accorse e, forse per sdrammatizzare, li fece avvicinare. Io ero un po’ preoccupata. Che cosa aveva in mente? Jago mise in mano al ragazzo un martello e uno scalpello. 

Al ragazzo tremavano le mani e dopo qualche lieve colpo si ritrasse, con gli occhi che brillavano, come scottato da quel privilegio. Sfilarono tutti, uno dopo l’altro, facendomi appena il solletico. 

“È stato bello, no? Costruttivo”, mi disse Jago con un mezzo sorriso, dopo che i ragazzi se ne furono andati. Parlava spesso con me e credo mi consideri come una vecchia amica, con cui parlare di tutto.

Adesso ci siamo separati per un periodo, perché sono stata trasportata altrove, da qualche parte a Roma, per la mia inaugurazione, ma spero di tornare presto a Napoli perché è a questa città a cui sento di appartenere, come del resto il mio autore.

· MINUTO 57:20 \ Nota 10 \ Il sangue di San Gennaro

Napoli, fine della Seconda Guerra Mondiale. Si sparge la voce che un bombardamento inglese ha rotto le teche contenenti il sangue di San Gennaro. 

“Non ostante i milioni di morti sparsi in tutta l’Europa, sembrava che neppure una goccia di sangue avesse abbeverato la terra. Ed ecco, all’annuncio che le due preziose teche erano state infrante, che quelle poche stille di sangue aggrumato erano andate perdute, pareva che tutto il mondo fosse coperto di sangue, pareva che tutte le vene dell’umanità fossero state tagliate per dissetare l’insaziabile terra. Ma un prete uscì sugli scalini del Duomo, alzò le braccia al cielo per imporre il silenzio alla folla, e annunciò che il prezioso sangue era salvo.

‘O sangue! ‘O sangue! ‘O sangue! La folla inginocchiata piangeva, invocando il sangue, e tutti avevano il viso ridente, lacrime di gioia solcavano quei visi scavati dalla fame, e un’alta speranza invadeva il cuore d’ognuno, come se ormai neppure una sola goccia di sangue dovesse più cadere sulla terra assetata”.

Curzio Malaparte nel suo romanzo “Kaputt”, ci catapulta in un episodio in cui si capisce la sacralità di quel liquido. 

La canzone “Faccia Gialla” di Enzo Avitabile ricorda invece un altro aspetto della storia di San Gennaro. Il titolo si riferisce al busto d’oro del santo, una statua in oro e argento realizzata nel 1305.  Un’opera che vuole incutere soggezione per la sua preziosità e maestosità.

San Gennaro nacque nel III secolo dopo Cristo e divenne Vescovo di Benevento in un’epoca in cui le persecuzioni dei cristiani erano ancora frequenti. Secondo la tradizione, venne condannato a morte per impiccagione e il suo sangue venne raccolto da donne devote in alcune ampolle, conservate fino ad oggi. 

“Sotto a n’editto e n’imperatore,
catacombe e persecuzioni
Tu nobile vescovo ‘e Benevento
Nu filo d’evera contro ‘o viento
È sango e nun è acqua
È sango e nun è acqua…”

La canzone oscilla come un pendolo in quel non-luogo in cui si collocano la maggior parte delle storie ambientate a Napoli: tra il sacro e il profano.

· MINUTO 1:28:20 \ Nota 11 \ Il Grand Tour a Napoli

“Da quanto si dica, si narri, o si dipinga, Napoli supera tutto: la riva, la baia, il golfo, il Vesuvio, la città, le vicine campagne, i castelli, le passeggiate… io scuso tutti coloro ai quali la vista di Napoli fa perdere i sensi!”

Goethe scrisse queste righe nel suo libro “Viaggio in Italia” in seguito al suo Grand Tour attraverso le principali città italiane. Rimase incantato da Napoli, e non fu il solo. Molti intellettuali dell’800 che si dedicarono a viaggi a tappe in giro per l’Europa, sostarono con le loro carrozze presso la città partenopea.

Il Grand Tour è un po’ l’antenato del nostro Interrail, ma senza treni ad alta velocità, storie su Instagram, o Lonely Planet in tasca. Al loro posto, i ricchi giovani dell’aristocrazia europea si armavano dei loro taccuini (i carnet de voyage) e i loro acquerelli, e cercavano di catturare le bellezze di Venezia, Roma, Firenze, Napoli. Inoltre studiavano, facevano acquisti, commissionavano ritratti a pittori locali per farne dei souvenir.

Non è un caso che la parola “turismo” derivi proprio da questa moda ottocentesca. 

Dagli scrittori e poeti come Lord Byron e D.H. Lawrence, all’architetto Sir John Soane, molti intellettuali si tuffarono alla scoperta delle meraviglie dell’antichità classica, le bellezze naturali, gli usi e costumi esotici. 

Ebbene sì: per questi travel blogger inglesi, tedeschi e francesi, le città italiane risultavano esotiche tanto quanto Il Cairo. Soprattutto Napoli, con i suoi stretti vicoli, la sua parlata incomprensibile, i mille riti scaramantici. A questo si aggiunsero gli scavi a Pompei, rinvenuti nella metà del 1700, che suscitarono la curiosità non solo degli storici ma anche negli appassionati di arte antica e di antropologia. 

Napoli ha una forza attrattiva sugli intellettuali di tutte le epoche. “Vedi Napoli, e poi muori” si dice ancora oggi. Forse perché una volta andati a Napoli, è difficile lasciarsi alle spalle la nostalgia e il desiderio struggente, la malinconia per un’amante lontana, il canto di una sirena che invita a tornare da lei. 

È come se la città sussurrasse parole ispiratrici a coloro che hanno orecchie per ascoltare, e qualcosa di importante da dire. 

Nel film “È stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino, il protagonista Fabietto Schisa viene condotto dal suo mito, il regista Antonio Capuano, di fronte al mare. Osservano il golfo di Napoli all’alba. C’è un gran silenzio, rotto soltanto dallo sciabordio delle onde e dalla voce perentoria di Capuano: 

“Ma è mai possibile che questa città non ti faccia veni niente da raccuntà?
Insomma Schisa, ‘a tieni qualcosa da dicere?”.

· MINUTO 1:08:10 \ Nota 12 \ La cera, un materiale tra due mondi

La fusione a cera persa è una tecnica utilizzata per la realizzazione di manufatti in vari metalli (oro, piombo, stagno) o leghe (bronzo, ottone). 

Ecco come funziona, a grandi linee. Si crea una forma di argilla più piccola della statua originale. Poi si modella la superficie con la cera. La cera viene prima rinchiusa da una guaina di gesso, poi, sottoposta ad alte temperature, si fonde. Al suo posto, nell’intercapedine tra argilla e gesso, viene colato il bronzo fuso.  

Insomma, si “perde” la crosta di cera incastrata tra le due parti robuste e solide. 

La cera tiene il posto e dà la forma, poi si allontana con grazia per lasciare spazio al più prepotente bronzo, decisamente meno duttile. 

La cera è quindi un materiale tanto indispensabile quanto transitorio. Non a caso, i modelli in cera creati dall’artista vengono chiamati “sacrificali”. Persi, appunto.

Questa tecnica ha accompagnato la storia dell’umanità da sempre: i Bronzi di Riace, il David di Donatello, fino al Pensatore di Rodin. Anche le campane delle chiese sono ancora realizzate con una tecnica simile. 

Ma la cera non è stata utilizzata nell’arte solo come vittima sacrificale. Molti artisti infatti non la considerano un tramite, ma la usano come materiale durevole. Le riconoscono una dignità superiore, in quanto offre infinite possibilità rispetto ad altri materiali: è morbida, plastica, si può modellare, rimodellare, rifondere, ed è possibile modificarne il grado di lucentezza e trasparenza. 

Come ci ricordano le statue dei VIP di Madame Tussauds, la cera è un mezzo espressivo potente per rappresentare la pelle umana.

Anche lo scultore Medardo Rosso si serve di un materiale versatile come la cera, per i suoi esperimenti impressionistici. Una delle sue statue più famose è l’Ecce Puer, un busto di bambino colto in un’espressione di sorpresa: la versione in cera ha il potere di restituire un momento fugace, plasmato direttamente dalla mente dell’artista nella sua opera, un volto a tratti levigato, a tratti solcato da minuscole gocce. 

L’utilizzo di materiali plastici fa parte del mondo della scultura additiva, in cui le masse di cera, argilla, pongo, malta si plasmano e si spostano. La scultura sottrattiva invece, come la scultura nel marmo o nel legno, è realizzata mediante scalpelli, intagli e fori. 

Modi e mondi diversi, ma spesso complementari, di concepire il mondo della scultura. Alcuni sono più ricchi ed elaborati, altri richiedono un minor dispendio di risorse e materiali. 

Persa in alcuni casi, salvata in altri, la cera si colloca da qualche parte, proprio in mezzo a questi mondi.

Bibliografia

Luciano De Crescenzo, Tutti santi: me compreso

Johann Wolfgang von Goethe, Viaggio in Italia

Curzio Malaparte, Kaputt

Giuseppe Marotta, L’oro di Napoli