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/bò·lo/

Eleonora Menegazzo

Mario Berta Battiloro

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Il ritmo scandito del martello schiaccia un piccolo grano d’oro fino a farlo diventare un sottilissimo foglio. Con la cura estrema per non sciuparlo, non farlo volare via, verrà appoggiato su un metallo più vile, sul gesso, sul legno, diventando una unica cosa con essi e trasferendo le sue nobili proprietà all’interezza. Battere l’oro è un arte antica, specialmente se lo si fa a mano e con oro zecchino, soprattutto se lo si produce in una antica e nobile casa veneziana. Eleonora Menegazzo ci racconta la storia sua, della sua famiglia, e dell’azienda Berta Battiloro, tra le poche rimaste al mondo a poter soddisfare le commesse più esigenti, il fregio di una cupola, una icona preziosa, una rilegatura decorata o quel vezzoso pezzetto d’oro sul risotto che incuriosisce ed affascina.

Note a margine

a cura di Alice Boscariol

\ Nota 1 \

L’invettiva

Io, il ferro, costo meno e sono più umile. Certo, mi arrugginisco. È forse una colpa? Voi non invecchiate, non vi riducete a poltigliette e polverine quando vi ossidate?
Lui no. Guardatelo lì, giallo e tronfio nella sua incorruttibilità. «Come sono resistente!». Arrogante. «Splendo come il sole!». Vanesio. È un manipolatore, e voi vi fate abbindolare.
Cos’ha fatto lui per voi? Io ho strappato il genere umano alla pietra e al bronzo, gli ho fatto conoscere le meraviglie della tecnica e della guerra. Io ero il progresso, l’evoluzione. E lui nel frattempo si dedicava ai ninnoli e ad altre sciocchezze del genere. Età dell’oro! Un tempo mitico, quando la terra generava i suoi frutti da sé ed era sempre primavera! Quando l’agnello e il leone pascolavano assieme, non servivano leggi e nei ruscelli scorrevano fiumi di latte e di miele… Ma quando mai? Il sogno dei pigri! Di chi è la colpa? Di Esiodo e Le opere e i giorni? No, non credo. Almeno lui li dava per persi, quei tempi immaginari. Avessimo lasciato parlar lui, i tempi dell’oro sarebbero stati solo un ricordo. Un ricordo falso, falsissimo, ma almeno li avremmo considerati come finiti, superati!
Invece ci si è messo Virgilio e la sua quarta egloga, nelle Bucoliche, a mettere il pallino della ciclicità. La gente pensa che l’età dell’oro possa tornare, che sia persino giusto così, usando a scusa Saturno e compagnia per parlare di progresso e futuro.
Penso a Creso, il re di Lidia. Quanto poco gli è servito essere tanto ricco, quando il re Ciro ha invaso il suo regno? Il saggio Solone l’aveva avvertito: la felicità di un uomo si misura quando muore, non mentre è vivo e sollazzato dalle ricchezze. Lui vi intrattiene, vi distrae; vi inganna. Creso ha capito la lezione solo quando ha conosciuto da vicino me. Sbarre e catene, ecco cosa servirebbe. Cosa ha convinto Ciro a liberarlo? Non le ricchezze: temeva arrivassi sotto forma di coltello o di daga e lo facessi a fette. E che male ci sarebbe stato, anche fosse? Io non corrompo l’animo come fa lui, che sposta il potere nascosto in borse di cuoio. Ci vuole coraggio a lasciare le tracce del proprio operato, fossero anche di sangue e budella. Almeno sono cose sincere, tangibili! Mi dipingete come la paura, mi usate come sineddoche: “prendi il ferro!” e non intendete me, ma quello che con me ci combinate. Le armi… Si è mai vista una pistola d’oro? Magari in letteratura. Ma nella vita vera avreste paura di perdervela in giro. Con me invece nessun ritegno. Mi disseminate in baionette spezzate neanche fossi grano. “Ferraglia: spregevoli oggetti di ferro deteriorati o male accozzati”, dice la Treccani. Avete mai sentito parlare di oraglia? Origlia, magari, ma il senso non è lo stesso. Lui anche quando è a pezzettini lo cercate col setaccio. A me affibbiate la maschera del malvagio senz’anima, mentre lui si accaparra i capelli delle poesie e i cuori più buoni. Vi illude di poter diventare come lui: immortale. Si viene estratti dal grembo di qualcosa, si viene forgiati dagli eventi e poi si arrugginisce tanto da sparire. Non mi credete? Va bene. Continuate a inanellarvi, a ingollarlo, a cercarlo nelle ombreggiature delle chiese, a batterlo a colpi di martello per renderlo tanto fine da poterlo infilare ovunque. Lui vi grazierà del suo bagliore, il vanitoso; ma vi guarderà sparire.

\ Nota 2 \

I numeri dell’oro

Settemila anni che lo adoperiamo
E di averlo in corpo non ci accorgiamo
Chi trova un amico trova un tesoro
Perché lo 0,000000003% di lui è fatto di oro

Il numero chimico è il settantanove
Su quello è sicuro, sì, non ci piove
La Smorfia invece senza far chiasso
Con sessantadue punta al ribasso

Ma l’oro non è uno che si scompone
Mica si scioglie al primo acquazzone
A 1063 gradi diventa molle
E a 2800 (se non lo guardi) bolle.

Duecentocinquanta kg il più grande lingotto
(circa trentacinque volte un bassotto).
Un avviso per tutti i futuri acquirenti:
la purezza dell’oro si misura coi denti.

“America”, di Cattelan il gabinetto,
nel 2019 è stato di furto l’oggetto.
Chi ha preso quei centotrè chili per diciotto carati?
cinque milioni di dollari tutti intascati.

Nella storia le tonnellate estratte son 187200
delle quali dal Sudafrica il 40 per cento.
Le Bullion Banks se ne tengono molti
la FED decide: a chi li hanno tolti?

La chimica in versi, Alberto Cavaliere

\ Nota 3 \

La principessa, il ranocchio, Horus e Visnù

C’era una volta una palla d’oro sfuggita dalle mani di una principessa.
La ragazza si sporgeva oltre il bordo della fontana, i lunghi capelli biondi che sfioravano l’acqua.
«Come farò?» piangeva la principessa. La fontana era profonda, e lei non aveva nessuna intenzione di bagnarsi i vestiti.
«Ci penso io!» Gorgogliò un ranocchio, sbucando da sotto una ninfea.
«Non credo proprio!» esclamò il dio indù Vishnu, arrivato a cavallo di un tritone volante.
«Ladri e lestofanti! Usurpatori!» gridò il dio egizio Horus, piombato in volo in forma di falco.
La principessa e il ranocchio non fiatarono, in attesa che Visnù parcheggiasse il tritone, mentre Horus riprendeva l’aspetto di un uomo in una vampata di fiamme. Qualche lingua di fuoco finì per incendiare l’aiuola dei narcisi.
«Chi ha rubato il disco solare?» chiese Horus.
«Che modi. Spegnerei prima i narcisi», lo invitò la principessa.
«Chi ha sottratto la ruota del cielo?» rincarò Visnù, incrociando le quattro braccia sul petto azzurro e poderoso.
«Ma che ne so?» rispose la principessa. «A me è solo caduta la palla».
Il ranocchio saltò allora fuori dalla fontana.
«Credo d’aver capito il malinteso. Speravo ci scappasse prima un bacio, ma è giunto il momento di rivelare la mia identità. Non sono un banale ranocchio, cara principessa e potenti divinità: sono un ex professore di linguistica diacronica. Durante un corso monografico sul sistema vocalico etrusco mi sono inimicato una strega: era il suo ultimo esame, ma le ho dato 17 lo stesso. Questo è il motivo della mia punizione. Ora però è il momento del mio riscatto!»
Sotto lo sguardo perplesso delle due divinità e della principessa, il ranocchio iniziò a raccontare.
«La parola “oro” ha un’etimologia interessante: si può ricondurre al latino aurum, certo, ma per capire l’inghippo che porta qui i nostri ospiti bisogna andare più indietro»
Dopo un’occhiata verso gli dei, giusto per controllare che non lo stessero per incenerire, il ranocchio continuò la spiegazione.
«La radice indoeuropea aus- si ritrova in quella proto-italica ausum. Significa “splendere, ardere”. E la -s di ausom si è modificata in una -r per via del fenomeno del rotacismo, una cosa piuttosto comune, ve l’assicuro. Ovviamente, anche nelle altre lingue indoeuropee troviamo la stessa radice. Sono cugine, dopotutto!
In greco abbiamo ayròs, per esempio, e la radice proto italica potrebbe dipendere proprio da quella. Ma il punto è che anche il sanscrito è una lingua indoeuropea: il termine hari, che significa “raggio di luce, giallo, sole”, è anche il nome del dio del sole, ovvero di voi, supremo Visnù!»
Horus si stava infastidendo. Lo si poteva dedurre dagli scatti nervosi del becco e dal fatto che il sole stesse facendo su e giù nel cielo come uno yoyo impazzito.
«E io, ranocchio?»
«Oh beh, voi… Nel terzo millennio a.C. l’antico egiziano indicava con “Hr” o “Hrw” proprio voi, signore. Sono stati i latini a darvi il nome Horo. E visto il vostro domino del Sole, non è da escludere il rapporto tra la vostra person- pardon, divinità, e il sanscrito Hari di cui abbiamo già ampiamente discusso».
«Capisco sempre di più quella strega» borbottò la principessa.
«Ma via! Non trovate interessante questo legame tra popoli? L’oro della vostra palla, principessa, non è solo un metallo! Ha in sé un immaginario capace di attraversare i continenti e le epoche. L’incorruttibilità dell’oro lo rende un mezzo per avvicinarsi alle divinità. E il simbolo del loro potere… è una metafora del disco solare! Ed è per questo che le vostre culture li hanno resi degli oggetti potentissimi, con i quali regnate sul mondo…»
«La Ruota celeste!»
«L’occhio di Ra!»
«Esatto: ciò che splende e che arde! È tutto un malinteso, potenti divinità. Le vostre palle d’oro sono al sicuro dove le avete lasciate».
«E se mi date una mano a recuperare la mia ci facciamo una benedetta partita a Schiaccia Sette, che di etimologie non ne posso più».
Franco Rendich, Dizionario etimologico comparato delle lingue classiche indoeuropee, 2° ed., Palombi, Roma 2010, pp. 74-75
Alan Gardiner, List of Hieroglyphic Signs.

\ Nota 4 \

Il doratore

Hai ancora le labbra socchiuse. Un filo di saliva brilla su un incisivo, un filo d’oro nella tua bocca. Mi passo il pennello sulla fronte. Le setole s’impregnano di sudore, è quello a trattenere la foglia d’oro in punta di pennello. Basterebbe il tuo sudore, la patina ancora viva sulla tua pelle, ma voglio esserci, statua mia, sulla curva del ventre e sulle braccia morbide, che lasci cadere dal tavolo da lavoro in questa luce liquida. Mi dispongo su di te con fogli sottili, impercettibili al tatto, che ti rendono eterna. Basta meno di mezzo millimetro d’oro per sigillare il legno, le pagine, il cuoio. Te.

\ Nota 5 \

El Felze

Nel cielo nero gondola brilla una costellazione di pratiche artigiane. Squeraroli, remèri, tapessièri, fravi, inatagiadori, baretèri, sartòri, calegheri: nomi di mestieri antichi, apparentemente lontani tra loro, che convergono nella creazione di un oggetto splendido come la gondola. “El Felze” è un’associazione veneziana che riconosce la necessità non solo di forcole e remi, fondamentali per controllare la direzione della barca, ma anche di tutti gli aspetti del parécio, la parte dell’arredo destinata ai passeggeri. Il felze, l’antica tettoia di copertura delle gondole, decorata da damaschi, broccati, finestrelle in vetro lavorato, diventa così l’oggetto attorno al quale si raccolgono mestieri diversi ma che traggono forza gli uni dagli altri. Un tempo erano le corporazioni a garantire il passaggio di clienti, a favorire l’aiuto reciproco e il mantenimento di un’identità collettiva; ora che gli artigiani vanno sparendo è necessario ripartire dagli oggetti.
Ed è così che la costellazione si arricchisce di dettagli: si delinea con precisione la curva dei ferri da prua, le pieghe nella marinéra del gondoliere, le sagome dei cavalli di bronzo che schiumano a poppa.

\ Nota 6 \

Magia simpatica

L’uomo estrae metodicamente l’hamburger dalla confezione d’asporto, seduto sui divanetti del Gold Club di Dubai. Il bagliore dorato non viene dalle patatine fritte, né dalla cipolla che ha sfrigolato sulla piastra fino a pochi minuti fa. Oro. Sottilissimo, impercettibile, ricopre interamente il bun in una panatura costosissima.
L’oro viene addentato e masticato. Nella saliva si mescola a pezzetti di pomodoro, carne e insalata, e scivola giù nell’esofago, impastato in una lava indistinguibile. Qualche frammento s’appiccica ai denti, nobilita per un attimo le otturazioni come in una trasformazione alchemica.
L’uomo si sente più sicuro di sé. La forza vitale dell’oro si trasmette al corpo, potrebbe giurare che i suoi capelli sono più lucidi, le sue battute più brillanti.L’oro, nel frattempo, galleggia tra i succhi gastrici imperterriti, attraversa penisole di chicchi di mais e gomme da masticare, ossa di ciliegia e riso nero.
L’uomo si sente più sicuro. Sorride gagliardo ai colleghi, si lascia offrire qualche birra di troppo. È il re di questo posto, lo amano.
Mentre l’oro scivola oltre lo stomaco e viaggia per le curve intestinali, l’uomo ormai è convinto: è stata quella panatura dorata a renderlo così apprezzato. Prezioso.
L’oro si districa tra i gangli intestinali, non produce reazioni. Si compatta col resto dell’hamburger e del pranzo precedente come passeggeri su un autobus in un viaggio lungo cinque, sei ore, e quando ne esce non si sente sopraffatto.
Si scioglie nell’acqua come le perle di Cleopatra nell’aceto e torna al mondo: si getta in mare, dalle profondità di una tubatura.

\ Nota 7 \

Bastoncini di pesce e artigianato

Cumuli di polpa bianca sfilano su nastri trasportatori. Sono filetti di merluzzo, bolliti e già spellati, pronti ad essere frullati e risputati in rettangoli panati: parallelepipedi con doratura sommaria, giallo-bruno-aranciata. Passano dal gelo degli abbattitori al cartone delle confezioni. Altri rettangoli, base per altezza, e ancora parallelepipedi, altezza per area di fibre spiaccicate, impanate, salate. Il merluzzo è diventato solo grammi e millimetri, (tutti concettualizzati – standardizzati, uniformati, omologati, omogeneizzati)

Sul tavolo di sugi – cipresso di Taiwan – di Keisuke Aramaki c’è un merluzzo tutto intero. Il Maestro di sushi l’ha studiato, valutato e poi approvato. Con un sol colpo di coltello taglia la testa e pure il budello: poche gocciole di sangue, precisione impressionante. Posa il filetto sul tagliere, guarda il risultato lucido del suo mestiere. La polpa soda lì è perfetta, col filetto gemello sulla destra. Quanti altri pesci sono stati scartati? Con quanta attenzione se ne sceglie uno solo? Eppure quell’uno è quello perfetto, liscio, pulito, senza un difetto.

\ Nota 8 \

A ciascuno il suo, e a tutti l’oro

Tra noi non funziona. Mi bombardi d’attenzione, mi sommergi dei tuoi gesti d’amore come in una doratura galvanica. Sai perché con me non funziona? Perché la tua elettricità funziona solo coi metalli: prenditi un uomo solido, lucido e stabile; allora sì che l’oro ci si appiccica. Ma io sono fatto di legno!
No, non basta neanche la doratura a missione. Lo so che è più semplice, con quei piccoli dettagli in punta di pennello, i suoi semplici gesti di attenzione. Ma non brillano tanto quanto quello che ho in mente. A te andrebbe bene? Dover aspettare i tempi di posa, miei e tuoi, e ridurci a pochi dettagli dorati? Mi sembrerebbe solo una bella amicizia.
Sei d’oro puro, lo sai, ma sono i leganti a non funzionare. Io voglio l’oro che illumina le aureole dei santi e gli arredi delle scene e i libri e le vesti e tutto quanto. Voglio un amore come le dorature a guazzo, che per far presa ti devono incidere e far spazio, renderti perfettamente liscio per accogliere l’oro. Solo dopo puoi dipingerci sopra, prima viene l’oro, ti rendi conto? I disegni, i piani che fai insieme sono secondari. E per un amore così potrei sperimentare mille leganti diversi, acqua albume e bolo d’argilla, e colle di pesce e di coniglio, e vedere quella che mi fa brillare di più. Potrei sacrificare intere foglie d’oro, vederle polverizzarsi sotto le dita perché ho applicato troppa forza, o troppa poca.
Ma questo vale per me e non per te, perché siamo fatti di materiali diversi.

Bibliografia

Emilio Pianezzola, L’età dell’oro latina in Studi di Poesia Latina in onore di Antonio Traglia, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1979, ISBN 8884988926, SBN IT\ICCU\SBL\0325120, ISBN 9788884988928.

Il mio nome è Rosso, Orhan Pamuk, Einaudi, 2014