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Gianmario Fogarizzu

Coltelli artigianali

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I momenti solenni della vita, in Sardegna, sono spesso segnati dal dono di un coltello. Lo si offre al testimone delle nozze, al medico che ti ha curato, al figlio per la maggiore età. Non sono semplici oggetti da sfoggiare o da conservare in un cassetto, sono anche compagni di viaggio nella bisaccia, sempre affilati per condividere un pezzo di pecorino, utili in ogni momento della vita agropastorale.
La forma a fiamma o a foglia di lauro, il manico di corno dai dettagli nitidi e puliti, la semplicità e l’eleganza, ne fanno probabilmente il coltello più bello di tutta la produzione italiana.
Essere maestri coltellinai è qualche cosa di più di un lavoro, è la responsabilità di portare avanti una tradizione. Cosa che Gianmario fa con grande capacità. Ha imparato a costruire i coltelli nella bottega dove ancora lavora Boiteddu, suo padre, proprio sulla piazza di Pattada e dove oltre ai coltelli si aggiustano le cose di ferro, si affilano le lame del macellaio, si chiacchiera senza fretta.
E sulla soglia del laboratorio, di volta in volta, si presenta il campionario del mondo intero, l’emigrato che ritorna, il turista, l’avvocato di grido che deve fare un regalo più interessante del solito orologio, lo studente che laureato, torna al paese.

Note a margine

a cura di Virginia dal Porto

\ Nota 1 \

Apologia del tagliare

Ci sono storie che iniziano e finiscono con un taglio. Tagliare è un gesto definitivo ed è proprio la sua irreversibilità a intimorire, a collocarlo tra le azioni dannose e meschine dell’uomo. Ma è davvero tutto qui?
Tagliare significa interrompere la continuità, significa dividere, significa trasformare un intero in frammenti di quell’interezza. La lama entra ed esce nelle narrazioni (che siano vere oppure no), decretandone gli eventi.
Quando Gordio legò il giogo al timone del carro con un nodo inestricabile (da lì, “nodo gordiano”) proferì che chiunque fosse riuscito a scioglierlo sarebbe diventato imperatore d’Asia. Ci provarono in molti e, nel 334 a.C., arrivò Alessandro Magno che, non riuscendo a districare il nodo di Gordio, lo recise con la sua spada. Ecco che qui, il taglio, assume un significato diverso dal mero “ferire”, ergendosi a decisione. Lo stesso concetto può essere ricollegato al rasoio di Occam. Si tratta di un principio di economia formulato nel XIV secolo dal filosofo e frate francescano Guglielmo di Occam. Il rasoio di Occam ci dice che fra tutte le soluzioni parimenti valide che ci troviamo di fronte, è necessario scegliere la più semplice, tagliando via le altre.
Platone ci racconta di un tempo in cui gli esseri umani avevano quattro braccia, quattro gambe e due teste e potevano essere di tre tipi: donna-donna; uomo-uomo; uomo-donna. Prendevano il nome di androgini. Quando però questi tentarono di sfidare gli dei, Zeus decise di tagliarli a metà. Da allora, uomini e donne sono alla ricerca della propria “metà mancante”: delle due gambe, due braccia e una testa che, tanto tempo prima, gli appartenevano. Così il taglio serve proprio per unire, per dividere un qualcosa e costringere le parti di quel qualcosa a ritrovarsi. È lo stesso dividere per unire che ritroviamo nella storia di Re Salomone. Quando si trovò di fronte due donne che si contendevano il figlio e decise di metterle alla prova servendosi di un coltello. Dichiarò di voler tagliare il figlio a metà, così da dare una parte a ciascuna delle contendenti. Solo vedendo la più disperata, capì chi fosse la vera madre. L’idea di dividere per unire è sopravvissuta anche in tempi moderni. De Andrè cantava: “Se ti tagliassero a pezzetti, il vento li raccoglierebbe, il regno dei ragni cucirebbe la pelle e la luna tesserebbe i capelli e il viso”.
Se qualcuno ti sminuzzasse, ci sarebbe comunque un modo per farti ricucire.
Il taglio è anche strettamente legato al concetto di vita. Nella mitologia greca quando le Moire prendevano una decisione, neppure gli dei potevano modificarla. Cloto, la più giovane, reggeva il filo dei giorni, Làchesi decideva i giorni felici e i giorni infelici avvolgendo al fuso il filo della sorte e, infine, Atropo, la più vecchia, l’inesorabile, lo recideva quando era giunto il momento. Così il tagliare rappresenta la fine della vita, ma al tempo stesso può rappresentare anche l’inizio della stessa. Si pensi al taglio del cordone ombelicale del nascituro, che lo separerà per sempre dal corpo della madre, oppure al taglio di una pianta che ci dà la talea, permettendo di piantare quel frammento e rigenerare le parti mancanti.
Tagliare è anche un fondamentale gesto di ricerca. Franz Kafka (scrittore) scriveva a Milena (scrittrice, giornalista): “tu sei per me il coltello col quale frugo dentro me stesso”.

Ecco allora che l’amore si oggettifica in un coltello che, affondando la lama nell’interiorità, scava e trova ciò che veniva celato. Il taglio come gesto di ricerca fa pensare anche a Lucio Fontana (pittore, ceramista e scultore), che attraverso il taglio della tela indaga la tridimensionalità, lo spazio che sta anche al di là dell’opera.
Tagliare, quindi, non comporta necessariamente una ferita. Tagliando si dà, semplicemente, un di qua e un di là

\ Nota 2 \

Mito del fabbro

Loki, dio dell’astuzia e degli inganni, riuscì a ottenere tre oggetti: i capelli di Sif, la dea del grano; Skíðblaðnir, la nave di Freyr, dio della bellezza e della fecondità; infine Gungnir, la lancia di Odino, dio indiscusso tra gli spiriti del cielo, chiamati Asi. I tre oggetti furono modellati dai Figli di Ivaldi e Loki sosteneva che nessun altro nano avrebbe mai creato niente di più bello e utile. Fu a quel punto che il nano Brokkr sfidò il dio, giurando che suo fratello Eitri sarebbe stato in grado di superare di gran lunga gli oggettucci degli Ivaldi. Ne era talmente sicuro che mise un pegno per tale scommessa: la sua testa, se avesse perso, la testa di Loki, se avesse vinto.
I fratelli si misero a lavoro: mentre Eitri, attraverso la sua magia, manteneva la fucina calda, Brokkr usava il suo mantice per evitare che il fuoco si raffreddasse o diventasse troppo caldo.
Brokkr stava creando il cinghiale Gullinbursti, un verro dalle setole d’oro, quando un tafano (forse lo stesso Loki?) planò su di lui, mordendogli la mano. Brokkr non si scompose e continuò a lavorare. Il nano andò avanti e procedette con il secondo oggetto: l’anello d’oro Draupnir. Ma il tafano tornò. Imperterrito, si stagliò contro il collo di Brokkr, mordendolo di nuovo. E di nuovo, il nano continuò a soffiare nel fuoco.
I fratelli arrivarono alla realizzazione dell’ultimo oggetto: il martello Mjölnir, il martello frantumatore. Eitri lottava per tener calda la fucina, Brokkr soffiava sul fuoco con il suo mantice. Ecco allora il tafano, che questa volta colpì subdolamente il nano nell’occhio. Il mantice, allora, si fermò per la prima volta. Si fermò per poco, ma tanto basta per far sì che il manico di Mjölnir divenisse più corto del previsto. Comunque, gli oggetti erano stati realizzati. Il lavoro era finito.
Il momento del giudizio sopraggiunse, gli dei superiori si passarono fra le mani gli oggetti dei due nani. La sentenza fu definitiva: il martello, l’anello e il cinghiale dalle setole d’oro erano ben più belli e utili degli oggetti dei Figli di Ivaldi. Loki, dio dell’astuzia e degli inganni, perse la scommessa contro i due fabbri. Riuscì comunque a non farsi tagliare la testa: Brokkr non sarebbe riuscito a prendergli la testa senza danneggiare pure il collo e il collo, si sa, non era compreso nel pegno.
I tre oggetti furono donati agli dei: l’anello di Draupnir fu preso da Odino; il cinghiale Gullinbursti al dio Freyr; infine, il martello Mjölnir al grande Thor, dio del fulmine e del tuono.

Il mito di Brokkr appartiene alla mitologia norrena, culto pre-cristiana dei popoli germanici della Scandinavia. È evidente come in tale narrazione sia fondamentale la figura del fabbro, soggetto in grado di costruire, per esempio, il martello che farà di Thor il grande Thor. È interessante notare come questa figura, così marginale da un punto di vista sociale, sia in realtà centrale nelle religioni politeiste. Efeso, Efesto, Vulcano, in tutti i casi il fabbro è presentato come indispensabile. Anche nella società odierna, a dire il vero, si dovrebbe riflettere sull’imprescindibilità di questo artigiano, spesso invisibile e trascurato.

\ Nota 3 \

Il coltello come compagno del pastore

I due fratelli risalivano la collina, in silenzio. Era quel silenzio imposto, il silenzio per vedere chi cede prima. La campagna sarda sconfinava di fronte a loro. Anche lei in silenzio.
Poi, il più giovane scoppiò: – Di chissu che babbu ci ha lacatu, la meddu palti ti sei presa!- e in effetti il più grande, dell’eredità del babbo, si era preso i sughereti, le vacche sorcine e il toro. Ma lui non era d’accordo, non aveva preso la parte migliore. Il minore era riuscito ad accaparrarsela e infatti disse: – Ma tu ti sei tentu lu tiu e la casa, tuttu chissu che v’era ‘ndrentu -. La casa, con quell’orticello coltivato, che il fratello aveva distrutto dopo appena sei mesi, trasformandolo in un cimitero bombardato. Era questo il rispetto che dimostrava al babbo?
Il minore, allora, non ci vide più: – Ti ni sei andatu a campà cun li signuri, fenditi comandà da to mudderi e li soldi di babbu l’hai spesi tutti -. Odiava la moglie di suo fratello, che lo aveva convinto a spendere tutti i soldi del babbo inutilmente, che lo comandava a bacchetta. Lui non aveva polso, lo aveva sempre sostenuto. Anche il padre lo diceva. Il maggiore non lo lasciò neanche finire che subito disse: – Ma me mudderi campa da signora, a me fiddolu cunnosci più di milli parauli, la toja è mugnedi di la manzana a la sera e li toi fiddoli so brutti di tarra e di lozzu e andarani a cuiassi a calche ziraccu! – ed era vero, verissimo. La moglie del minore s’era sposata un sudicio pastore e così pure le loro figlie si sarebbero sposate un sudicio pastore. A quel punto il minore rispose: – chill’emu a vidi in piazza ca l’ha più tostu lu murro! -, la sfida era stata lanciata.

Il maggiore, allora, estrarrebbe il coltello dalla tasca. Non avrebbe aspettato la piazza. La lama scintillerebbe sotto il sole alto. Il minore rimarrebbe immobile. Di nuovo, il silenzio. Solo il fruscio del vento e il ronzio di un’ape ignara che volerebbe in mezzo a loro. Il maggiore rimarrebbe così, con il coltello a mezz’aria. Si guarderebbero con il loro occhi identici. Poi il suo viso cambierebbe. Prenderebbe dalla sacca un pezzo di formaggio e userebbe il coltello per dividerlo in due parti uguali. Darebbe una metà al fratello, che la prenderebbe con un sorriso. (Fabrizio De Andrè – Zirichiltaggia)

\ Nota 4 \

Variazione dei coltelli in Sardegna

La “leppa de chiuntu” è stata l’arma più diffusa in Sardegna fino al tardo Ottocento. Si tratta di una sciabola senza guardia, lunga dai cinquanta ai sessanta centimetri, “de chiuntu” perché portata alla cintola.
Nel 1871 venne emanata una legge che vietava il porto di coltelli con lama superiore ai dieci centimetri che avessero sistemi di bloccaggio. Poi, il decreto Giolitti del 1908 limitò ulteriormente il porto di coltelli, diminuendo la lunghezza della lama consentita ai quattro centimetri (in seguito, spostati a sei). Allora i fabbri (sos frailarzos) si ingegnarono: iniziarono a imperniare le lame nei manici, rendendo i coltelli facili da nascondere e da trasportare. Così nasce il coltello che, a seconda della zona, viene chiamato resolza al nord, lesorja nel nuorese e arresoja al sud. Tale coltello assume un ruolo fondamentale, tanto che venne definito il “prolungamento della mano” di pastori, contadini e minatori.
Il coltello sardo cambia a seconda della dell’origine. Si può dividere in due tipologie principali: il monolitico e l’animato.
Il primo ha il manico realizzato da un monoblocco, scavato per l’alloggiamento della lama. Il secondo ha il manico in tre pezzi: due guancette e, appunto, un’anima.
Quelli ancora oggi realizzati sono la Pattadese, l’Arburese, la Guspinese e la Còrrina.
Sa pattadesa è propria del sassarese e prende il nome dalla città di Pattada, dov’è nata. È un coltello animato e l’impugnatura è realizzata da due placche di corno giustapposte tra un arco in ferro mediante ribattini. La lama a serramanico in acciaio è imperniata su un anello di ottone.
S’arburesa arriva dal sud, il nome deriva dal paese di Arbus. Questa, a differenza della pattadese, è un coltello monolitico a serramanico. La lama è a “foglia larga”, avendo, quindi, una forma più panciuta delle altre.
Sa guspinesa è nata a Guspini, nel Medio Campidano, e nella versione originale è chiamata “foglia di mirto”. Si tratta di un coltello a serramanico che si può trovare in due modelli: il primo ha un lama leggermente panciuta e un manico curvo; il secondo ha una lama tronca e viene chiamata spatola. Quest’ultimo modello viene dal decreto Giolitti del 1908.
Sa còrrina è un coltello di prima generazione, il più semplice e antico. Ha una lama fissa a foglia d’ulivo e un manico in corno di capra. Data la sua semplicità era costruita dal pastore stesso.
Si capisce, dunque, come la varietà degli impieghi di tali coltelli e della loro esperienza manuale, porti a una forte eterogeneità della forma. L’aspetto interessante è che, anche al venir meno della figura del pastore o di altri “utenti del coltello” e al venir meno dell’originarietà del materiale (spesso, importato da altri luoghi), questa eterogeneità continua a persistere. La motivazione potrebbe risiedere nel fatto che, per quanto riguarda il coltello sardo, l’attività di produzione sia artigianale e non industriale, mancando quindi tutto il sistema di omologazione del mercato moderno. Tuttavia, si dubita che il motivo sia solo questo. Infatti, altrove le forme si sono ibridate, “appiattite” a modalità più standard.
La Sardegna continua, ancora oggi, a contraddistinguersi per una forte autonomia locale e identitaria. Bastano venti chilometri per cambiare tradizioni, usi, addirittura lingua. Si pensa che proprio la mancata omologazione della Sardegna al resto del mondo impedisca, alla fine, l’omologazione dei suoi prodotti e, quindi, dei suoi coltelli.

\ Nota 5 \

Coltelli d’amore

Il pegno, nel linguaggio giuridico, è un diritto reale di garanzia che ha per oggetto un bene mobile; il pegno serve a trasferire il possesso di quel determinato bene mobile a garanzia di una data obbligazione. In sostanza, il bene mobile testimonia il passaggio da una situazione di libertà a una situazione di impegno. Per estensione, un pegno può essere una garanzia solenne di un impegno morale o di un legame affettivo. In passato, quando la situazione di impegno riguardava il fidanzamento il pegno era detto pegno d’amore. Si trattava di oggetti simbolici: cucchiai, ciotole, corone, rosari, tutti arricchiti da un lavoro d’arte, che poteva essere intarsio, scrittura, pittura o altro. L’arricchimento consisteva, spesso, nel riferimento specifico alla coppia, facendo menzione dei loro nomi, o del nome della sola amata, o rappresentando una casa. Si parla di oggetti simbolici poiché non interessava tanto il loro utilizzo, quanto la portata emblematica che ne conseguiva. Si pensi a un cucchiaio di legno il cui manico è intagliato per essere una catena. È in realtà un oggetto “cervellotico”: il manico è inutilmente intagliato, ma serve per testimoniare la capacità tecnica, la perizia di chi lo ha fabbricato. È qui sta che sta tutta la differenza tra i pegni d’amore e i “pegni” odierni, come il diamante o l’anello di fidanzamento. Non vi è scambio monetario, non vi è dimostrazione di potere d’acquisto, è piuttosto un’ostentazione delle proprie capacità artigianali. Una sorta di oggetto curricolare, che qualifica là dove la transazione economica non può arrivare. Ciò valeva anche per la donna: le più ricche, in passato, avevano la famosa dote; ma, se le donne, per esempio, cucivano da sole il proprio corredo, anche questo era testimonianza delle capacità delle spose.
Tra i pegni d’amore spiccava il coltello, detto – appunto – coltello d’amore. Tali oggetti non erano donati in nome del loro utilizzo, ma in nome di ciò che rappresentavano. Mentre oggi si baratta il tempo per il denaro, prima si scambiava il tempo con la perizia. Gli oggetti servivano a rappresentare un futuro impegno domestico. Nello specifico, il coltello poteva rappresentare la forza del futuro marito, una promessa di lavorare sodo per il sostentamento della famiglia.
Il coltello aveva un ruolo anche nel corteggiamento. Se lo sposo riusciva a pelare una mela senza mai spezzare la buccia, anche questo rappresentava una dinamica carica di complessità, dinamica a testimonianza di una eventuale situazione futura.
In pratica, in passato non si prometteva solo il denaro, ma soprattutto la capacità di fare.

\ Nota 6 \

Coltello da duello

Il duello è una modalità di combattimento formalizzato e consensuale tra due persone. Lo scopo non è tanto la morte dell’avversario, quanto far valere il proprio onore, ristabilirlo attraverso un atto di coraggio, atto che potenzialmente può mettere a rischio la propria vita. Di fatti, si distingue tra i duelli al primo sangue e i duelli a oltranza. I primi, largamente utilizzati, si fermeranno alla prima ferita di uno dei duellanti, i secondi, invece, continuano fino a poter arrivare alla morte di uno di questi. Nel Codice cavalleresco italiano del 1923 a opera di Jacopo Gelli, all’art. 200 si dice che i duelli a oltranza non si devono proporre o accettare, ma, all’art. 201, si ammette l’impiego degli stessi in casi di offese gravi.
Nel Medioevo, il duello era un vero e proprio processo, legalmente previsto. Prende il nome di duello giudiziario o duello ordalico e si sosteneva, infatti, che il risultato di tale procedimento non dipendesse tanto dalla bravura dei contendenti, quanto, piuttosto, dalla volontà di Dio e dal suo giudizio. Le ordalie avevano varie forme e venivano utilizzate per vari reati. Se, per esempio, qualcuno veniva processato per furto, gli si riempiva la bocca di pane e formaggio: se riusciva a ingoiare, allora era innocente, se soffocava, era colpevole. Così anche venivano usate per decretare la legittimità parentale di un figlio: il bambino veniva gettato nel fiume, se affondava era illegittimo, altrimenti era il vero figlio di suo padre.
Tornando al duello, quando lo Stato intervenne per limitarlo ne regolò la pratica affinché si svolgesse con modalità cavalleresche. Questo tipo di duello era utilizzato dai nobili, mentre le classi popolari seguivano regole meno istituzionalizzate.
Nel 1800, uno dei coltelli utilizzati erano quelli a scatto multiplo, simbolo – se vogliamo – dello scopo stesso del duello. Come già specificato, il duello non aveva come scopo tanto l’omicidio dell’avversario, quanto la manifestazione del proprio onore. Infatti, il coltello a scatto multiplo prevedeva tre scatti, l’ultimo dei quali segnava l’apertura definitiva del coltello. Primo scatto. Secondo scatto. Terzo scatto. Ogni click faceva parte della contesa, ogni click avvicinava i due allo scontro. Era un modo per minacciare l’altro, dal primo all’ultimo scatto l’intensità del duello aumentava. Ma lo scatto era anche utilizzato come deterrente, per dissuadere e intimidire l’avversario. Dinamica, tra l’altro, ancora diffusa a Bali e nelle Filippine, dove viene usato il balisong (detto anche coltello a farfalla), chiamato così per il manico che viene aperto in due parti per scoprire la lama. In questo caso il coltello viene fatto girare, aperto e chiuso per dimostrare di essere capace di usarlo. È, in sostanza, una prova di destrezza.
Le dinamiche d’onore portavano spesso a questo tipo di risoluzioni. L’onore non si manifestava solamente nello scontro, ma anche nel tipo di arma utilizzata. Un coltello piccolo, per esempio, era emblematico di un uomo valente. Più piccolo il coltello, più vicino devi farti per aggredire l’avversario e, quindi, più coraggio devi impiegare.

\ Nota 7 \

Irreversibilità

Nel gesto del taglio si annida un’insita e inevitabile irreversibilità. Tagliando, infatti, si crea una cesura irrimediabile, dividendo una parte in due parti, separandole. Si potrebbe dire che sono proprio le cesure definitive a scandire la vita. Così lo fa il tempo, l’elemento irreversibile per eccellenza. Ogni secondo è un taglio definitivo al filo della vita, e ogni secondo staccato non potrà mai essere riattaccato. È proprio la sua perentorietà, infatti, questo “tagliar via” inesorabile, a rendere il tempo così temibile. Da non biasimare i greci che, nella loro mitologia, il tempo (Crono) l’hanno ucciso. Crono, padre di Zeus, quando capisce che sarà uno dei suoi figli a spodestarlo, decide di divorarli tutti. Sarà Zeus, quindi, una volta cresciuto, a eliminare il padre. Questo mito è emblematico nello spiegare una certa concezione del tempo: Crono è distruttore inesorabile di qualcosa da lui stesso creato. È proprio per questo che qualsiasi cosa profumi di irreversibilità – potremmo dire, quindi, di eterno – ci affascina tanto.
Si pensi al tatuaggio e quanto questo sia stato impiegato nella storia per segnare i passaggi della vita. I primi tatuaggi di cui abbiamo conoscenza risalgono a cinquemila anni fa. Sono stati ritrovati sui corpi di due mummie egizie (recentemente scoperte, retrodatando la pratica dei tatuaggi di mille anni in quanto si credeva che i tatuaggi più antichi fossero quelli della mummia di Ötzi ). Raffigurano un toro con delle lunghe corna, una pecora e dei motivi a forma di S.
Il tatuaggio fu importante pure in ambito religioso, essendo utilizzato per la rappresentazione di immagini sacre. In questo caso, il tatuaggio assunse il significato di – si potrebbe dire – “irreversibile appartenenza”. Infatti (nonostante fosse vietato da Papa Adriano I nel 787 d. C. durante il Concilio di Nicea II) di particolare rilevanza storica sono i segni del Santuario di Loreto effettuate su polsi e mani. Si trattava di simboli cristiani, come la croce o la rappresentazione delle stigmate, effettuati anche dagli abitanti della costa a causa degli attacchi dei pirati. In caso di morte, infatti, sarebbe stati riconosciuti come cristiani e sepolti in terra consacrata, grazie – appunto – a un gesto irreversibile, capace di superare e “parlare” anche dopo la morte.
L’irreversibile appartenenza vi era anche, per esempio, tra i cecchini del Seconda guerra mondiale. Questi si tatuavano il logo del proprio status e anche il numero di persone uccise durante la guerra. Era un espediente: consci del fatto che se fossero stati catturati li avrebbero subito riconosciuti, il tatuaggio li spingeva a evitare che accadesse.
Al pari dei tatuaggi ci sono le scarificazioni, tagli sulla pelle talmente profondi da comportare segni permanenti, una sorta di cicatrice-tatuaggio. In tante tribù sub sahariane, oggi come nel passato, questi segni rappresentano i momenti di passaggio della vita e, più in generale, lo scorrere del tempo. Quando viene operata durante la pubertà, la scarificazione simboleggia rappresenta l’ammissione nella alla comunità tribale, ma . Ma la scarificazione può essere impiegata anche in per altri riti di passaggio: il primo parto, la prima caccia, la prima uccisione di un uomo. Così il corpo assume valore di testimone, percorso da lunghe cicatrici ornamentali.
Si potrebbe dire, alla fine, che il tatuaggio e la scarificazione sono “tentativi di eternità” che l’uomo pone in essere attraverso il taglio.

\ Nota 8 \

Apprendista

Il più delle volte, il sapere artigiano non è tramandato attraverso libri nozionistici, ma attraverso un rapporto a due: maestro e allievo. L’allievo arriva nella bottega del proprio maestro e passa anni e anni a imparare la sua arte. In Italia, questo legame è la maggior parte delle volte giustificato dal sangue: il maestro è un parente, spesso il padre, dell’allievo. Il motivo è abbastanza semplice: da una parte, tramandare di padre in figlio è più facile la tramandabilità appare più semplice, dall’altra, ci sono ragioni economiche, tramandare il sapere in famiglia significa tenere in famiglia anche il vantaggio economico di quel sapere. La giustificazione sanguigna è talmente importante, in certi casi e campi, da far apparire “estranei” o “impostori” quelli che tenti di imparare un’arte artigiana in assenza di un parente nello stesso campo. Un modo di insegnare intessuto di tradizione, oralità e legame intimo.
Al termine dell’apprendistato, l’allievo doveva sovente superare una prova, che poteva addirittura essere pubblica. La prova sanciva il passaggio irrimediabile alla maturità artigianale dell’allievo. Nelle armerie occidentali, prima di essere conferita la patente di fabbro, vi erano prove durissime. Nella cavalleria francese, per esempio, la spada doveva essere testata nel seguente modo: la punta doveva toccare l’elsa senza che la lama si rompesse. In sostanza, era l’oggetto a essere messo alla prova, non tanto l’artigiano. La bravura dell’allievo, infatti, era tutta concentrata nel suo ultimo oggetto da alunno, oggetto di passaggio. L’alunno poteva terminare il suo apprendistato se quell’oggetto di passaggio era impeccabile. In Giappone la prova di taglio era particolarmente importante. Si tratta del tameshighiri, ancora oggi praticata, ma in una forma meno cruenta. Venivano scelti i migliori spadaccini, così da non poter incolpare l’incapacità dello spadaccino o l’arma in caso di fallimento. Per testare la spada si potevano usare svariati materiali, spesso venivano scelti, però, o cadaveri o criminali, in questo caso vivi. Se la spada andava da parte a parte, riuscendo ad attraversare irreversibilmente il corpo oggetto di taglio, allora era perfetta.
L’apprendimento era ed è parte fondamentale nel lavoro artigianale. Tra maestro e allievo poteva capitare che si imponesse un segreto professionale: l’allievo non si doveva azzardare a riportare gli insegnamenti del maestro. Le ragioni sono le antenate delle odierne leggi sulla concorrenza: nessun altro poteva monetizzare quel sapere. Questo tipo di segreto professionale veniva mantenuto anche ulteriormente richiesto nelle botteghe dei fabbri, anche per evitare di diffondere il sapere bellico da Stato a Stato.
Si creava così una sorta di legame magico, misterioso: dentro la bottega entravano due uomini e ne uscivano con gli oggetti più incredibili; quello che accadeva dentro, non è dato saperlosi sa.

Bibliografia

Fabrizio De André e Massimo Bubola, Zirichiltaggia, album Rimini, 1978